A mangiare le salamelle è rimasta solo la Lega

NO PARTY L’Udc annulla la kermesse e incolpa il governo: «Con la crisi c’è poco da festeggiare»

A mangiare le salamelle è rimasta solo la Lega

Recita un epico passaggio di Caruso Pascoski di padre polacco che «la mortadella è comunista, il salame socialista, il prosciutto crudo democristiano, la coppa liberale, la finocchiona è radicale: il prosciutto cotto è fascista». E fin qui. Ma la salamella, o salsiccia che dir si voglia a seconda della latitudine? Vai a vedere che è leghista, la salamella. La questione non è di poco conto. Perché, iniziata la stagione delle feste di partito, i partiti stanno facendo a gara per stabilire chi possa attribuirsi la titolarità del simbolo delle vecchie feste dell’Unità, quelle che fecero scuola, e quindi in definitiva chi sia il vero erede del vecchio, grande, radicato Partito comunista.
Il primo a cominciare è stato Roberto Calderoli, che ha punzecchiato gli avversari: «Le nostre feste sì che funzionano. Pd e Udc riducono le loro perché sono costretti a sponsorizzarle. Da noi invece accade il contrario: sono i cittadini che, ben volentieri, vengono da noi, perché trovano idee e perché qui si mangia bene e ci sono un sacco di belle ragazze nostrane». Apriti cielo. «Il ministro parla a ruota libera - gli ha subito risposto il portavoce dell’Udc Antonio De Poli -. Quest’anno abbiamo deciso in piena autonomia di non celebrare una festa nazionale perché con la crisi economica c’è poco da festeggiare». Inviperito Lino Paganelli, responsabile organizzativo del Pd: «Alle nostre feste vengono 10 milioni di persone e funzionano eccome». Eppure. Dai un’occhiata alla Padania, il quotidiano leghista, e ogni giorno ci sono centinaia di appuntamenti in tutto il Nord. Dai un’occhiata ai voti ed è chiaro che un parallelismo c’è.
Così, non è un caso che Felice Belisario il presidente dei senatori Idv, partito dallo scarso radicamento sul territorio, a Camere appena chiuse dica: «È ora che il dibattito si sposti dalle feste di partito alle aule parlamentari». Né che il processo di riunificazione della sinistra, Rifondazione e Comunisti italiani, parta dalla cucina. «Se la Lega si è comunistizzata bene, i veri eredi del Pci siamo noi» commenta acido Orazio Licandro, responsabile organizzativo del Pdci. Che poi però ammette: «Avendo unito i partiti, il numero delle nostre feste si è ridotto». Quella nazionale di luglio l’hanno organizzata in una cogestione non proprio perfetta: 15 giorni di guida a testa: «Riannodare i fili è un processo non semplice. Ma se riusciremo a cucinare, mangiare, servire ai tavoli e lavare i piatti assieme, allora forse riscatteranno antiche solidarietà, e il processo di unificazione sarà compiuto davvero».


In fondo il clima non può che rispecchiare quello della politica, e lì è la frammentazione a farla da padrona, con l’antico pueblo non più unido e pure vencido, disperso fra le salamelle comuniste e il lambrusco democratico (il lambrusco è solo democratico da quando Oliviero Diliberto il leader Pdci lo bandì dalle tavole del suo congresso all’urlo di: «Fa schifo»). È un po’ come in Parlamento. Ci sono rimasti Pd e Idv, seduti sui seggi. Gli altri, dal Prc al Pdci, dai Radicali ai Verdi, fuori. Che significa, anche, meno soldi. Per la serie: no rimborsi elettorali, no party.

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