Con la Manon tutti a casa felici

Solo un anno fa non pareva possibile che qualcuno o qualcosa potesse mai più riscattarla dall'incredulità, dalla delusione, dalla demotivazione. Ma Stéphane Lissner ha fatto il miracolo. E la Scala non solo è risorta, ma ha anche ricominciato a contagiare quella sottile eccitazione che è una delle sue unicità. Ovviamente si sono dovuti accettare compromessi, specie nel campo più colpito della direzione. Ma l'orchestra è passionale. Sempre pronta a infiammarsi, o pro o contro. Il passaggio di qualche bacchetta di livello le ha riconsegnato la sua storia e il suo colore. E con gli altri ha fatto appello alla memoria. In questi giorni è di scena la Manon di Massenet. L'allestimento è collaudato. Il cast vocale nella mani da validi habituée. Il coro uscito indenne dallo tsunami della scorsa primavera. Il direttore ospite, Ion Marin, non è all'altezza. La sua scelta era probabilmente un tributo da pagare. Il pubblico che si sente parte del mito Scala vuole solo applaudire. E alla fine si dimostra appagata da una recita che solo pochi mesi fa avrebbe scatenato elettricità ad alta tensione. Insomma c'è bisogno di felicità. E la gente se la prende anche quando non c'è.
Non siamo in teatro, oltre che nel grande teatro del mondo? Di questa Manon continuano a sedurre le raffinatissime scene dipinte (ispirate ad alcune stampe dell'archivio Prix de Rome) di Ezio Frigerio. La ricercata ricostruzione d'epoca dei costumi di Franca Squarciapino. La regia di Nicolas Joël, direttore del Théâtre du Capitole di Toulose che coproduce, è un po’ retrò. Ma tranquillizzante e non priva di momenti di eccellenza: la scena di Saint Sulpice, la vivacità della casa da gioco, gli struggenti pierrots del Cours-la-Reine. Peccato l’eliminazione delle danze. La Manon di Inva Mula, forse è un po’ troppo leggera quanto voce e psicologicamente statica, funziona. Seppure con qualche problema tra le agilità del Cours-la-Reine, scena portata avanti dall'insinuante ritmo di gavotta. Il tenore Massimo Giordano ha una bella voce brunita e molto sentimento. È un Des Grieux accattivante, con qualche difficoltà nel primo atto. Fabio Capitanucci, Lescaut, s'è ascoltato in miglior forma. E se per cogliere il fascino della lingua francese si deve aspettare Philippe Rouillon, Conte Des Grieux, nel complesso (bene anche tutti i comprimari) anche la parte vocale funziona. Il problema resta il nostro Ion. Che è simpatico, sicuro, un po’ sopra le righe (perché si dice padre dell'unico complesso cameristico dei Berliner dal momento che esiste, e sta vagando da queste parti, la paludata Philharmonische Camerata Berlin?) e decisamente superficiale.
Manon, quintessenza di francesità nel suo mix di generi, nella (maliziosa) intimità dei duetti, nella grandeur del declamato (Marin reintroduce i mélodrames), nella voluta frammentarietà specchio della fragilità degli amanti, nel cliché stilistico e nella lingua, sta in piedi se curata al dettaglio.

Mentre lui va come se un repertorio valesse l'altro. O è pesante o melassa. In ogni caso monotono e indifferente a colori e umori. Approssimativo negli attacchi. Tuttavia, nella Scala rinata e ammansita, «stanno tutti bene». E vanno a casa felici.

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