Mario Pirani confessa di aver sbagliato tutto Ma ne va ancora fiero

Mario Pirani, giornalista di lungo corso - è attualmente editorialista di Repubblica - racconta molte cose interessanti nella sua autobiografia (Poteva andare peggio, pagg. 430, euro 20) pubblicata da Mondadori. Dapprima apparatchik del Pci, poi funzionario d’alto rango dell’Eni di Enrico Mattei, Pirani ha avuto frequentazioni importanti ed è stato coinvolto in vicende importanti. Ho qualcosa da obiettare sul sottotitolo del libro: Mezzo secolo di ragionevoli illusioni. No, gran parte delle illusioni che Pirani ebbe nella sua gioventù di togliattiano puro e duro non erano per niente ragionevoli.
I ricordi di Pirani (che domani sarà ospite del Festivaletteratura di Mantova), come quelli d’altri comunisti o ex comunisti per i quali ho stima, lasciano irrisolto l’interrogativo di fondo: come è possibile che personaggi intelligenti, preparati e risoluti nel dichiararsi indipendenti abbiano potuto non solo restare in un partito come il Pci, ma anche esserne i portaparola e gli esaltatori? Adesso Pirani recita un mea culpa. «Non capivamo - scrive - che stavamo diventando succubi di un nuovo credo globale, di una fede per noi inedita che, ingabbiandoci in uno schema di pensiero geometricamente razionale, ci toglieva la percezione di una realtà assai più duttile, imprevedibile, contraddittoria». Una prosa piuttosto involuta per ammettere d’avere sbagliato tutto. Ma - anche questa è una caratteristica dei reduci dal Pci - senza rinunciare a una convinzione di superiorità culturale e morale. Traccia indelebile dell’antico «orgoglio luciferino di una confraternita chiamata a trasformare l’Italia e il mondo». Sappiamo, da queste pagine, che per un lungo periodo nemmeno le peggiori nequizie staliniste riuscirono far rinsavire i fedeli. Sono straordinarie, per il loro cinismo, queste frasi di Giancarlo Pajetta rivolte alla commissione stampa e propaganda del partito (Pirani ne faceva parte): «A Praga hanno impiccato sedici persone. Se noi contrapponiamo a questo processo soltanto la lotta per la tredicesima ai pensionati o la protesta perché Gronchi non ha rispettato l’articolo 12 del regolamento del Parlamento italiano, la gente dirà: “Sì, va bene, ma hanno impiccato sedici persone”. Se invece noi facciamo vedere il pericolo che vi è per l’Italia di uno scatenamento della guerra, la questione delle condanne verrà vista sotto un altro aspetto». «La questione delle condanne», che meraviglioso eufemismo.
Le rocciosità ideologiche ma anche le frivolezze della quotidianità affiorano in ogni capitolo del volume. Con un Enrico Berlinguer - non proprio un cordialone - che si irrita perché Pirani legge prima di lui la «mazzetta» dei quotidiani, lasciandogliela un po’ in disordine, e l’ammonisce a rispettarla. Ma il racconto più divertente è per me quello sulla rottura tra Belgrado e Mosca: un racconto che aderisce perfettamente alle scene d’un film della serie di Peppone e Don Camillo in cui una delegazione italiana in Urss vede sparire d’un tratto dai muri dell’albergo i ritratti di Kruscev, rimpiazzati da quelli d’un glaciale Kossighin (Kruscev era stato destituito).
Veniamo a Pirani. A metà giugno del 1948 Giancarlo Pajetta gli consegnò un grosso plico giallo sigillato. «Prendi il primo treno per Belgrado, recati al Cominform - l’organizzazione dei partiti comunisti che a Belgrado aveva sede - e consegnalo nelle mani di Giuliano (Pajetta, fratello di Giancarlo), mi raccomando a nessun altro». A Belgrado Pirani è fatto entrare nell’ufficio di Giuliano Pajetta «dove questi e la sua segretaria stavano bruciando in un caminetto delle carte. “Cosa stai facendo?” chiesi. “Non lo vedi? Bruciamo le carte superflue. La disposizione è di farlo ogni due ore in ogni ufficio. Si tratta di vigilanza rivoluzionaria. Ora puoi ripartire”». L’esterrefatto ma obbediente Pirani avrebbe voluto visitare Belgrado. Giuliano Pajetta fu perentorio. «Devi partire immediatamente».

Solo quando arrivò in Italia Pirani capì quel che era successo, e che il Pajetta minore gli aveva gelosamente tenuto nascosto. La prima pagina dell’Unità si apriva con un titolo a nove colonne: «Tito condannato dal Cominform». Per questo Belgrado era d’improvviso diventata inospitale.
Storie e storiacce d’altri tempi e d’un altro Pirani.

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