Il marito di Melania: «Fatemi il test del Dna»

Melania, che poi di nome, quello vero, faceva Carmela, non ha ancora avuto sepoltura. La salma resta a disposizione dell’autorità giudiziaria. E nemmeno si sa dove, quando e perché sia morta. Manca un movente certo, persino il luogo del delitto è ancora da definire. Mentre le persone sospettate si affacciano come figure scomposte e sfumate in un puzzle a cui manca più di un tassello. Indagati, ufficialmente, non ce ne sono.
Undici giorni sono trascorsi dalla sua incredibile scomparsa, nove dal ritrovamento del corpo trafitto da 35 coltellate nel bosco delle Casermette, oltraggiato, denudato.
Probabilmente- come sospettano gli investigatori- un tentativo di depistagggio, a quanto pare maldestro, un modo per mischiare le carte. Dalla posizione in cui l’assassino ha piazzato il cadavere, alla siringa conficcata sotto il seno sinistro, alle incisioni su una coscia. Insomma, una messinscena per disegnare un quadro «diverso».
Si parte proprio da questi particolari per dare un nome e un volto al killer della giovane moglie del soldato.
Lui, il caporalmaggiore Salvatore Parolisi, tornato dall’Afghanistan per addestrare donne in divisa nella caserma Clementi del 235° reggimento di Ascoli è stato il primo a finire nel mirino degli investigatori. Ultimo ad averla vista viva e a dare l’allarme con sospetto ritardo. C’è qualcosa nei suoi racconti che ancora non convince. Testimonianze e tempistica per ora lo scagionano. È un lavoro di scrematura quello dei carabinieri diretti dal colonnello Alessandro Patrizio. Si procede per esclusione, cercando la pista giusta. Una strada che non porta a un mostro, a un maniaco occasionale passato in quel parco sul colle di San Marco per caso.
Il killer si nasconde tra la sfera di conoscenze, forse anche occasionali, di questa coppia partita dalle periferie del Napoletano. Lei bella e fedele, lui un po’ guascone, almeno in quella caserma dove addestrava 400 soldatesse ogni due mesi e mezzo. Si parla anche di una relazione, vecchia oramai di qualche anno con una donna militare oggi di stanza a Verona. Era davvero finita? Non è dato sapere. Si indaga anche su questo. Poi spunta il vicino di casa, affascinato dai tacchi alti che facevano sembrare Melania, in realtà 1 metro e 71, una diva da passerella. E poi l’amico del marito, Raffaele, la guardia carceraria che per primo lo avrebbe aiutato nella ricerca di Melania. Si perché il caporalmaggiore, che adesso si offre volontario per la prova del Dna - «ho già dato anche i vestiti» (nella sua auto sono state rinvenute alcune che sembrano sangue), anziché dare l’allarme a polizia o carabinieri quel maledetto lunedì 18 chiamò proprio lui. «Ho grande fiducia» in Raffaele, quasi si giustifica ora Parolisi. «È uno del posto e forse avrebbe potuto conoscere qualcuno nelle forze dell’ordine, così che in questo modo mia moglie sarebbe stata cercata più approfonditamente».
Di certo, tra amici e forse anche parenti della coppia, c’è chi ha raccontato bugie. O perlomeno omesso qualcosa. E gli investigatori lo sanno.
Una pista, un’ipotesi privilegiata, oggi esiste, ma saranno i giorni e in particolar modo gli esiti dell’analisi del Ris di Roma, a dire se si tratta di quella giusta. Al proposito i carabinieri innalzano il muro del riserbo.
«Potrebbero essere state più persone, forse anche una donna, a uccidere Carmela Rea», ammettono gli investigatori. Stavolta ottimisti. Dovrebbe essere solo questione di tempo.
Intanto il professor Adriano Tagliabracci, l’anatomopatologo cui è stata affidata l’autopsia smentisce alcune indiscrezioni relative alla perizia.

«Non ho mai scritto che Carmela Rea sia rimasta agonizzante due ore prima di morire. Troppo i colpi inferti per ipotizzare una fine simile».
E sull’orario del decesso? Anche qui nessuna certezza. L’arco temporale e di oltre 24 ore.

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