Che un ragazzino musulmano capiti nella moschea sbagliata, e non si accorga che la predica del venerdì è affidata a un matto visionario, uno della curva Sud di Al Qaida, ci può stare. È accaduto. Accade. Che un ragazzino musulmano, allevato nella moschea sbagliata, decida di assumere come nome di battaglia quello di Abu Mussab Al Zarqawi, il buonanima capo di Al Qaida in Irak: sì, ci può stare anche questo. Ognuno si sceglie gli eroi che vuole, a 15 anni. E ci può stare perfino che uno, anche se ha solo 15 anni e neppure una playstation su cui sfogarsi, progetti di andare in Irak a fargliela vedere a quei maledetti americani, se uno è davvero convinto che siano emanazione del Demonio.
Ma morire a 15 anni, con la pancia lardellata di tritolo, da kamikaze di Allah, non può essere una scelta. Ecco perché, in un certo senso, poco ci stupisce la denuncia di una madre algerina che ora dice: «Sì, l'autore dell'attentato di sabato scorso contro la caserma della Marina a Dellys (35 morti e 46 feriti) era mio figlio Nabil. Nabil Belkacem. Ma lo hanno costretto. Lui non voleva. Voleva scappare. Però gli hanno detto questo: che se si fosse rifiutato l'avrebbero fatta pagare a noi, i suoi familiari. Me lo ha detto lui, al telefonino, prima di andare a morire».
Ora, Dio ci perdoni. Ma se i grandissimi mascalzoni che hanno ordito questo orrore venissero instivalati in una pelle di porco (animale che sta ai musulmani come ai vampiri una treccia d'aglio); e così confezionati venissero fatti esplodere anch'essi mentre stanno appesi una cinquantina di metri sotto la pancia di un elicottero in volo sul Mediterraneo, in modo da trasformarli utilmente in cibo per triglie e cefali, ecco: sarebbe davvero un peccato? Voglio dire: quantomeno per la legge islamica dell'occhio per occhio?
Di Nabil Belkacem, sventurato ragazzino che sognava di combattere contro gli americani come Silvio Pellico contro gli austriaci, e aveva della vita una visione romantica ed eroica, sappiamo solo questo: che fra un paio di mesi avrebbe ottenuto il diploma di scuola media a Bachdjarah, un quartiere popolare di Algeri. Nabil credeva in quello che gli siringavano nella moschea di Apreuval, vicino a casa. E forse fu per gioco che un giorno accettò di farsi fotografare con una tuta da combattimento, il mitra in mano, come i ragazzi palestinesi che aveva visto tante volte su Al Jazeera. Un giorno, inch'Allah, anche lui sarebbe andato a combattere contro gli infedeli che calcano il sacro suolo fra il Tigri e l'Eufrate. E non si è accorto che per lui si stava preparando il destino del verme appeso all'amo: bomba umana per ammazzare un pugno di suoi fratelli più grandi, gente che credeva nello stesso Dio.
La madre sapeva dell'adesione di Nabil al gruppo terroristico (Al Qaida per il Maghreb islamico, si chiama). E aveva fatto di tutto per dissuaderlo, per salvarlo.
«Qualche giorno prima dell'attentato di Dellys mi chiamò con un telefonino - ha raccontato la donna -. Mi disse che aveva paura, che non sapeva dove si trovava e che voleva fuggire, ma aveva paura di essere scoperto». Dunque Nabil sapeva, o aveva anche solo intuito qual era il destino che lo aspettava. Una voce, qualche mezza parola orecchiata da una conversazione tra i suoi aguzzini: chissà.
«Gli avevano detto - ha raccontato ancora la madre, disfatta dal dolore -, che se fosse fuggito, se si fosse tirato indietro, se la sarebbero presa con noi. Aveva paura che ci uccidessero. Poi, forse solo per tranquillizzarmi, aggiunse che non mi dovevo preoccupare davvero; che sarebbe riuscito a fuggire e che sarebbe tornato a casa. Poi riattaccò».
Nabil è solo l'ultimo, e forse il più giovane, dei ragazzi mesmerizzati dalla predicazione violenta di fanatici inturbantati.
Luciano Gulli
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