MATISSE Ombre nel trionfo del colore

La sua pittura è un inno cromatico alla bellezza della vita. Ma sotto la gioia, il dolore è in agguato. Lo dimostrano le splendide opere esposte a Basilea

Nel dicembre 1917 Henri Matisse va a trovare Renoir a Cagnes, nel sud della Francia, dove vive ormai da tempo. Renoir ha quasi ottant’anni, ha avuto un ictus ed è torturato dall’artrosi. Non cammina più e ogni movimento gli provoca una fitta di dolore. Tutti i giorni, per dipingere, si fa portare al cavalletto e legare i pennelli alle dita: solo così riesce ancora, faticosamente, a lavorare. Matisse non capisce tanto accanimento. Renoir è famoso, ha dipinto centinaia di quadri, l’Europa lo celebra come uno dei padri dell’arte moderna. Non potrebbe accontentarsi, riposare? Anche se teme di offendere l’anziano maestro, alla fine non riesce a trattenersi e gli chiede perché continua a dipingere. La risposta di Renoir è di quelle che non si dimenticano: «Ricordati - gli dice - che il dolore passa, ma la bellezza resta».
Per Matisse è la conferma, folgorante, di quello che aveva sempre pensato. L’arte non può essere un bollettino di guerra, una cronaca dei dolori, un’enciclopedia del negativo. Piero della Francesca ha rappresentato la Flagellazione (cioè una delle torture più atroci), dipingendo tre statue luminose, perfette. Guai se l’arte insegue la cronaca nera; guai se disegna la vita com’è veramente, con la sua smorfia orribile.
Matisse ne è sempre stato convinto, fin da quando, ancora giovane, si accosta all’impressionismo. O quando, nel 1905, a trentasei anni (era nato a Cateau Cambrésis nel 1869) dà scandalo al Salon d’Automne di Parigi con una pittura dai colori esasperati, che qualcuno non a torto definisce «selvaggia», fauve. O, ancora, quando fra il 1918 e il 1928 attraversa una stagione classica che si traduce in un ideale di pienezza vitale, rappresentato dal rigoglio della natura, dallo splendore della luce, da un mondo di sontuose figure femminili. La sua, per così dire, è una via «veneta» alla classicità, che si incentra soprattutto su una nuova ricerca cromatica, in cui vede un potenziamento della tradizione: «Esprimersi col colore è una grande conquista moderna. Così la tradizione si è arricchita, non si è interrotta. Del resto un artista che abbandona la tradizione viene subito dimenticato» dichiara.
Per tutta la vita, insomma, Matisse ha dipinto un’immaginaria gioia di vivere, come si intitolava un suo quadro del 1905. In un secolo allietato da due guerre mondiali, dalla bomba atomica e da un’imprecisata quantità di violenza, ha dipinto odalische, assolati paesaggi mediterranei, fiori, frutti, tutte cose belle e consolanti.
Ma, soprattutto, ha dipinto lo splendore dell’ornamento. La sua è una pittura sovraccarica di segni, traboccante di colori: decorazioni alle pareti delle stanze, sui pavimenti coperti di tappeti, sui tavolini gremiti di oggetti, sui vestiti intessuti di ricami e guarnizioni. Matisse non dipinge niente in tinta unita. E se per caso una sua modella indossa un abito tutto bianco, o tutto verde, state pur certi che quel colore si riempie talmente di iridescenze e di modulazioni da diventare un’intera tavolozza.
Certo, vedendo le sue opere (ne offre giusto l’occasione la grande mostra aperta alla Fondazione Bayeler di Basilea, che raduna un buon numero di opere, tra cui alcuni capolavori assoluti, come Natura morta con La Danza dell’Ermitage, Pesci rossi e scultura del MoMa, La lezione di piano del Guggenheim Museum, Il torso di gesso del Museo di San Paolo del Brasile, il Paravento moresco del Museo di Philadelphia; Il sogno del Beaubourg); vedendo le sue opere, dunque, viene il dubbio che tanta gioia nasconda un fondo d’ansia. Come certi venditori che devono alzar la voce per piazzare la loro merce, come certi attori che sentono la necessità di caricare la parte, Matisse vuole assicurarci che la vita è bella, bellissima, una meraviglia. E, nel dubbio che non sia così, eccede in splendori e fuochi d’artificio, ci stordisce con una trama di segni e di squilli di colore. Chi esagera, dicono gli psicologi, non è convinto. E infatti anche nelle opere di Matisse trapela ogni tanto qualche ombra. No, non nella tavolozza, che è sempre gioiosa e solare, ma nelle sue modelle, nelle sue figure femminili, sul cui volto si disegna, per un attimo, un pensiero doloroso.
Per esempio nella sua Odalisca dai calzoni rossi (1921), adagiata sul divano verde, nella festa di blu e oro delle piastrelle arabe, tra il viola dei fiori e il rosso pompeiano del pavimento. Tanto trionfo di colori, tanta gloria di luce non sembrano contagiarla, chissà perché.

Del resto sono passati solo tre anni dalla fine della guerra, magari le è venuto in mente qualcuno che non è più tornato... Ma è solo un attimo. Perché forse, nonostante tutto, aveva proprio ragione Renoir: il dolore passa, ma la bellezza resta.

LA MOSTRA
Matisse. Basilea, Fondazione Beyeler, fino al 9 luglio

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