Meno male che Matt c'è. Se non ci fosse lui, Matt Damon, l'attore di serie A più sexy del mondo (così la classifica di People), non verremmo a conoscere il lato oscuro dell'impero americano a Bagdad. «Chi ha dato l'imbeccata?», chiede il suo furente capitano Miller, protagonista del thriller bellico The Green Zone (da venerdì nelle sale), constatando che, per la terza volta, i servizi segreti Usa mandano lui e la sua truppa in bianco, a cercare armi di distruzione di massa inesistenti, nel cuore dell'Irak sconvolto dalla guerra. Per trovare che cosa, poi? Una fabbrica dismessa di sanitari («qui ci sono solo cessi», commenta un soldato), invasa da strati di sterco di piccione... Se si vuole capire quant'è alto il prezzo pagato - in termini di sangue e soldi - al sogno della democrazia nel deserto, bisogna vedere questo film d'azione di Paul Greengrass, il regista che ha diretto i due fortunati Bourne (The Bourne Supremacy e The Bourne Ultimatum), sempre in tandem con il premio Oscar Matt e che adesso torna all'action-thriller per raccontare il dramma iracheno.
Trainato dal successo internazionale di The Hurt Locker, film a basso budget, che però ha vinto l'Oscar, Green Zone (cioè «zona verde», dove gli ufficiali Usa se ne stavano rintanati nel palazzo di Saddam, dopo la caduta del dittatore) si colloca tra i più suggestivi reportage di denuncia dell'ultimo decennio. Non a caso, del libro omonimo (Rizzoli) da cui origina il film, un best seller di Rajiv Chamdrasekaran (boss del Washington Post al Cairo), John Le Carré è rimasto entusiasta («Si tratta d'una commedia nera, ambientata nel cimitero del sogno neo-con. Straordinaria», ha commentato).
A pensarci bene, quanti anni sono che, dai tempi di Apocalypse now, ci fischiano nelle orecchie le pale degli elicotteri americani, pronti a calare dall'alto di ogni cielo, sotto al quale si trovino risorse? Certo, l'Irak non è il Vietnam, ma - elicotteri a parte - vengono in mente certe atmosfere guardando il capitano Miller, in tuta mimetica e mitra ai piedi d'un letto dalle sponde dorate, mentre cerca di capire chi è che gioca sporco. Non lui, che nell'esotico deserto iracheno, sul sedile anteriore del suo cingolato Humvee, protegge i suoi uomini da vero soldato di carriera. Siamo nel 2003 e la bella faccia dell'eroe solitario Matt tradisce dubbi profondi. Nella Bagdad del dopo-Saddam, nella Città di Smeraldo dove mancano acqua ed elettricità, le truppe americane contro chi combattono? Ma, soprattutto, chi manda l'85º battaglione del capitano Miller a rischiare la vita per nulla? Possono essere i membri dell'intelligence, che hanno stilato una lista di postazioni «ad alta priorità» (dove, poi, si scava a vuoto). Magari saranno i veterani della Cia, oppure quel civile ipocrita, che capeggia la Dia, insieme con un ufficiale dei Berretti Verdi, pronto a tutto? Le informazioni, nel frattempo, continuano a risultare false e Miller mangia la foglia. Le armi di distruzione di massa non ci sono e la fonte esclusiva («Magellano»), usata pure da una reporter di guerra, che però non verifica mai l'attendibilità delle informazioni veicolate, è inventata per creare il «casus belli». Eppure, per quasi due ore, Miller non fa altro che correre, sparare, sfuggire alle imboscate (puro stile Bourne), sempre tentando di stanare il «Jack di Fiori», che non c'è.
«Non sta a voi decidere cosa accade qui», gli dice Freddy lo zoppo, il suo informatore iracheno, un reduce che ha lasciato una gamba in Iran, combattendo da patriota. Così, se curdi, sciiti e sunniti litigano ferocemente; se gli iracheni non possiedono armi chimiche, se, infine, neanche la stampa fa il suo dovere, ci penserà Miller a inviare un bel rapporto, via e-mail, agli organi di stampa. «Distorsioni e false informazioni, per creare a tavolino un casus belli», manda a dire il militare. Alla faccia del cinico spione Cia, pronto a osservare che Washington vuole solo «roba da Cnn».
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