Ho 600 paia di scarpe, tutti dicono che sono matto (tranne chi le vende) e forse lo sono. Ho cominciato a collezionarle nel 1972, quando in un un certo ambiente milanese era il massimo calzare le Barrows (ormai scomparse da anni) o farle fare su misura da Arcando o da Alessandro Cantori (entrambe ambite da molti ragazzi che non indossavano l’eskimo).
Erano scarpe a punta, spesso con strani cinturini e fiocchetti, ma non molto adatte agli abiti seri. Così quando sono diventato più grandicello mi sono buttato a capofitto sulle Church’s. Ne ho comprate di tutti i modelli, dalle classiche Diplomat alle Westbury (quelle con la fibbia laterale di varie misure), dalle Shannon alle Stratton (pesanti, arrotondate, uguali all’apparenza ma molto diverse), dalle Chetwynd di camoscio ai recenti modelli bicolore in tela e pelle (no, beige e marroni non sono da burino anche se le ho comprate e non le ho mai messe). In realtà io acquisto le scarpe ma poi non le uso, le raccolgo, le studio. Cui prodest? Non certo alle mie finanze.
Fatto sta che sono diventato sempre più esigente. Amo ancora le Church’s anche se essendo diventato maniaco del meglio ormai punto sulle Edward Green. È come parlare di una macchina sportiva - per quanto elegante - rispetto a una Porsche o a una Ferrari. Il costo è naturalmente diverso ma anche le linee (molto più affilate e snelle e incredibili sfumature di colore); a Milano molti negozi le tengono in alternativa alle Church’s, e si possono ordinare su misura personalizzando colori e forme.
Le Lobb su misura - quelle fatte a mano nella bottega di St. James a Londra - sono inimitabili, non si può dire altro, da non confondere con le John Lobb vendute nei negozi omonimi, anche queste belle, eleganti e costose tranne alcuni modelli assurdi in lucertola arancione o in coccodrillo azzurro. Le mie preferite in assoluto sono quelle di George Cleverley; linea e pelli da perdere la testa.
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