Michele Mari: ho vinto scrivendo in lombardo

A un milanese il prestigioso «trofeo» per la narrativa

È milanese quest'anno il supervincitore per la Narrativa Italiana del premio internazionale «Grinzane Cavour». Michele Mari, con il romanzo Verderame (Einaudi), ambientato sul Lago Maggiore, l'ha spuntata su una concorrenza tutta femminile, Elisabetta Rasy (L'estranea, Rizzoli) e Serena Vitale (L'imbrogliodel turbante, Mondadori), grazie al voto finale di una giuria popolare formata da centinaia di studenti italiani e stranieri, come è tradizione del Premio.
Professore, il premio assegnato da studenti l'ha sorpresa?
«Molto. Verderame ha come protagonista un tredicenne, quindi sarà anche scattata l'identificazione, però ha anche un'impronta linguistica ardua e una pesante presenza del dialetto. Credevo che per i ragazzi si trattasse di un ostacolo insormontabile».
Da dove viene questo dialetto?
«È quello del giardiniere che conobbi quando ero ragazzino, sul Lago Maggiore. Bofonchiava in modo gutturale con una base linguistica dialettale varesotta. Ho ricostruito nel romanzo un generico dialetto lombardo non purista e nemmeno rigorosamente milanese. Nella mia famiglia non abbiamo mai parlato dialetto, mi ha aiutato la lettura di Porta, Balestrieri, Tessa, Franco Loi».
Milano le ha dato qualcosa come scrittore?
«I miei romanzi hanno quasi tutti ambientazioni fantastiche. Ma quando ho deciso di rivelarmi, come in alcuni racconti autobiografici, allora la città viene fuori. L'unico romanzo in cui ho affrontato la questione della milanesità in contrapposizione a Roma e al sud è stato però Le rondini sul filo, storia di gelose retrospettive sulla mia ex moglie, romana, in cui ho rappresentato in modo manicheo la Milano delle fabbrichette, delle ville a schiera e di una certa prepotenza e arroganza antropologiche più che economiche».
Ma un suo luogo del cuore milanese ce l'ha?
«Ho avuto un'infanzia malinconica e angosciosa e tutti i luoghi di Milano ne sono impregnati, specialmente il parco Solari, dove andavo spesso da bambino. Quando ci passo davanti mi prende ancora il magone».
Però proprio da poco ha riscoperto la città.
«Mi hanno chiesto di scriverci sopra un libro, insieme a un pittore che si chiama Velasco Vitali. Uscirà per Edt in autunno, con il titolo Milano fantasma. Ho accettato a patto che mi permettessero di dire della città tutto il male possibile. E ho cominciato a girare per Milano con una vecchia guida Touring, come un turista qualsiasi».
Qualche anticipazione?
«Trenta pezzi su trenta luoghi di Milano, illustrati da tempere e acquereli di Velasco. Le cose belle che ho riscoperto: le volte in ferro e vetro della Stazione Centrale, Palazzo Belgioioso, Villa Litta, le basiliche. Poi ci sono le cose pessime, i quartieri».
Cioè?
«I Navigli, su cui ho scritto pagine durissime: rovinati da locali, dalla moda, dal finto antico, ormai sono un bordello. Mi fa male, evito di passarci, come da Brera. Il palazzo di Giustizia, così fascista nelle forme da far pensare in modo quasi subliminale che anche la giustizia che vi si amministra sia fascista. Il Fopponino, di fronte a Porta Vercellina, dove sull'antico cimitero degli appestati i preti han fatto un campo da calcio. S'io fossi uno dei quei morti un pallone che mi rimbalza in testa non lo vorrei. Il cimitero Monumentale, luogo di pompa architettonicamente grottesca, di esibizione pacchiana della ricchezza milanese».
Inevitabile chiederle che ne pensa dei cantieri aperti a Milano, da CityLife a Repubblica.
«A me il gigantismo fa orrore, CityLife mi ricorda le Torri di Babele, l'idea che dallo sventramento di piazza Giulio Cesare vengano fuori tre torracchioni avveniristici e rilucenti mi lascia perplesso».


Senza pensarci troppo, che cosa farebbe per la cultura a Milano da qui al 2015?
«Due piccole cose, ma importanti. Primo: estensione degli orari di apertura delle biblioteche e dei musei. Poi dispenserei qualche finanziamento per tenere in piedi le pochissime sale cinematografiche storiche rimaste».

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