Miei cari ragazzi, va combattuta la cultura egualitaria

Non è gran consolazione che l’Economist di ieri abbia chiamato good news le varie misure per l’Università del ministro Gelmini. Certo servirà per replicare ai tarantolati in sfilata che in strada fuorviano i giovani più fragili, oppure a una opposizione catatonica che cerca di rianimarsi. Ma v’è in ciò anche un che d’umiliante: l’inabilità della università italiana risulta ormai tale che i giudizi ultimi su di essa vengono rimessi all’estero. La stessa condizione di un’università africana, dove la citazione in una rivista inglese decide di una autorevolezza che la cultura del luogo non si può dare. Appunto questa è l’odierna essenza della università sortita dalle scalate sociali dei sessantottini, e dalle viltà democristiane e dal colpo di grazia dei comunisti. Ma se è così le riforme della ministra Gelmini, per quanto siano volenterose, servono a poco. E in questo pessimismo mi ritrovo confermato dall’esperienza. La settimana scorsa ho pensato bene di dimettermi dal mio corso d’insegnamento.

Per la verità, due decenni fa, alle forche caudine dell’università italiana preferii il ritrovarmi emigrato a lavorare in una sobria banca svizzera. Non me ne sono mai pentito. Eppure, a periodi, sono tornato a tenere piccoli corsi. Ma ogni volta ho sentito sdegno e dolore: per la diseducazione dei giovani che la nostra più elevata educazione, quella universitaria, quasi sempre completa. Non c’è entusiasmo di un giovane che non sia il più delle volte sedato in luoghi dove gli esamucci, i corsi soporiferi, e le carriere sciupano tutto. Tra l’altro i migliori docenti di una volta, che almeno sapevano, si sono fatti più rari; ora prevale un conformismo senza fervore, di tipi umani fuori parte. Nati per fare i piazzisti di caramelle ma finiti accademici, dunque intenti a piazzare corsi, articoletti o loro raccomandati di nullo pregio. Altro che riformine. Il guaio è di quelli che si rimediano solamente col lavoro duro di una generazione. Alla Università mancano ormai gli esempi e una propria comunità. Ne è riprova l’idea disperata che circola di far scrutinare, decidere all’estero la selezione accademica: palese ammissione di indegnità e pochezza. Dunque difetto di quell’esempio di forza intellettuale e morale che è la prima lezione che uno studente dovrebbe ricevere. Invece si ritrova appunto educato a contare i crediti, a mettersi in salvo con un qualche corso all’estero, a simulare quanto non sa, in esami inutili, e peggio: a sentirsi solo. Perché l’altro esiziale difetto è che l’università italiana è come il corridoio di tanti ministeri, dove gli uscieri fanno i cruciverba e telefonano. Luogo freddo, di una burocrazia senza comunità, nel quale il giovane impara a barcamenarsi, solo, in un senso di inutilità che educa a divenire pessimi ma furbi, piegandosi alle inutilità dei vari corsi, o agli sfoghi prescritti dalle rivolte finte.

Ma me ne sono accorto: volevo scrivere un articolo di giornale e invece sto scrivendo una lettera agli studenti, alle decine di visi, ai quali mi sono affezionato. Ma è stato inutile: il fervore di lezioni, forse persino quell’oretta di lotta giapponese a cui tra le due lezioni, nella pausa pranzo, ho preteso addestrarli. Perché almeno serviva a fare comunità, a farli sentire seguiti, educati a un’educazione civica vera, all’arte della misura e della comprensione. Ovvero a una comunità, alla quale però nelle università italiane non si sognano neppure di dover educare. E che può fare chi ha un altro mestiere, e insegna per poche ore? Ben poco; e alla fine resta sì l’affetto degli studenti, ma anche lo spettacolo di vedere distorti i loro migliori talenti. Ma per non essere cupi; torniamo a quanto proprio bisognerebbe fare. Anzitutto lasciare che sia la cultura a ridarsi degli esempi, e a crearsi delle proprie comunità. Da evitarsi i vari punteggi sovietici, né servono più soldi statali: sono il varco del male. Ci si prepari piuttosto al lavoro di una generazione: a far sì con una libera struttura di fondazioni, che i docenti migliori si aggreghino e si cooptino, e si premino i meritevoli, avversando una cultura egualitaria. Si richiede insomma che non siano più dipendenti statali.

Ma così, si dirà, ci saranno delle comunità universitarie di serie A, e le altre di B. La replica è immediata: nella presente istruzione una comunità universitaria esiste assai poco, comunque l’esempio generale è già ben sotto la serie D.

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