Mezzo secolo. Statisticamente, oltre la metà dei milanesi di oggi non erano nati quando la bomba scoppiò. Non c'erano il giorno dei funerali nel Duomo investito da una luce livida, di cadavere. È soprattutto a loro che serve quanto si sta facendo in questi giorni, intorno al cinquantesimo anniversario del massacro di piazza Fontana: le formelle che vengono apposte sul selciato davanti alla banca o l'albero che in piazzale Segesta verrà dedicato dal Comune al ferroviere Pinelli, morto in questura pochi giorni dopo e che della strage fu di fatto la diciottesima vittima. A chi non ha vissuto a Milano i giorni terribili del dicembre 1969, quei nomi di vittime puntano ad aprire finestre di interesse e di consapevolezza.
Ma gli altri? A quelli che c'erano, che sono cresciuti e invecchiati in una città che portava la cicatrice di piazza Fontana incisa nella sua carne, cosa porta l'anniversario? Loro delle formelle e dell'albero, in fondo, non hanno bisogno. Quando passano nella piazza, la grande insegna della Banca Nazionale dell'Agricoltura (una banca che non esiste più da anni e solo uno slancio di Sergio Cusani impedì a suo tempo che l'insegna venisse rimossa) tocca dei relais ancora attivi nella memoria. Eppure anche a loro la ricorrenza e le celebrazioni portano qualcosa in più. E non è un arricchimento di cui andare lieti.
L'anniversario incombente ha portato a un profluvio di libri. Sette nuovi saggi, più altri due a fumetti; e la ristampa di alcuni classici, come quello fondamentale di Giorgio Boatti (semplicemente, «Piazza Fontana», da Einaudi). Ogni libro ripercorre la vicenda dal proprio punto di vista, ma con una chiave comune: la convinzione che la strage sia ormai un delitto risolto, di cui sono chiari gli autori, i protettori, il movente. Nell'ordine: la cellula neofascista attiva in Veneto, gli ambienti deviati dei servizi segreti, la diffusione di un panico nella società che legittimasse la svolta a destra.
Tra questi libro ce n'è però uno che costringe a porsi delle domande e, inevitabilmente, a schierarsi. Si chiama «La maledizione di piazza Fontana» (Chiarelettere), entra come un bisturi nella conduzione delle indagini e dice in sostanza che, se si fossero condotte diversamente, oggi non esisterebbe il paradosso di piazza Fontana: il paradosso di una strage chiarita, ma senza condannati. Si fosse indagato diversamente, dice l'autore, oggi qualcuno sarebbe in carcere. Il problema è che è un autore con cui i conti vanno fatti: si chiama Guido Salvini ed è il magistrato che per lunghi anni ha indagato sulla strage, afferrando il bandolo che portava ai neofascisti veneti, raccogliendo le confessioni dei pentiti tra cui Martino Siciliano e Carlo Digilio, lo «zio Otto» che del gruppo veneto era l'armiere. Dalle sue indagini nacque il processo bis, che finì con le assoluzioni di tutti. E allora parve una conseguenza dei troppi anni trascorsi, che rendevano difficile trovare dettagli e riscontri.
Ma nel suo libro Salvini dice un'altra cosa: che la verità si poteva raggiungere. Attacca molti suoi colleghi. Alcuni che non possono più difendersi: come Gerardo D'Ambrosio, cui rinfaccia di non avere interrogato una commessa di Padova che avrebbe potuto riconoscere il nazista Franco Freda come acquirente delle borse usate per la bomba; o come Francesco Saverio Borrelli, che incolpa di avergli in sostanza scippato l'indagine. Ma se la prende anche con colleghi viventi: come Felice Casson, giudice istruttore a Venezia e poi deputato. Casson mi fece la guerra, dice Salvini, perché con la mia inchiesta smentivo due suoi cavalli di battaglia, cioè il ruolo di Gladio nella strage e le colpe del Sismi nell'occultare la verità.
E Salvini va più in là: racconta di avere continuato a indagare in proprio, raccogliendo confessioni e confidenze che illuminavano i retroscena della strage. E se gli si chiede: non aveva lei, come magistrato, il dovere di comunicare alla Procura quello che andava scoprendo?, lui risponde: «L'ho fatto. Ma loro hanno archiviato tutto».
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