"Attila" esalta i milanesi L'ovazione è per Mattarella

Il pubblico e i coristi lo acclamano come un simbolo Il presidente: «La musica baluardo della democrazia»

"Attila" esalta i milanesi  L'ovazione è per Mattarella

Alla fine i barbari non sono arrivati. La Scala per il suo «Attila» di sant'Ambrogio li ha aspettati invano, come una fortezza Bastiani sospesa nell'attesa di questa prima Prima dell'era grillin-leghista. E invece, nonostante il Giuseppe Verdi in cartellone (dalla modica durata di due orette e mezza) quelli sono rimasti a presidiare i Palazzi e gli unni si sono visti solo sul palco a vedersela con i romani, stretti nelle loro lugubri divise da totalitarismi novecenteschi. E così tutto il pubblico è esploso in un rito liberatorio quando nel buio della sala si è visto entrare, mai così atteso, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Cinque minuti ininterrotti di applausi come non si erano mai visti, con la platea che ha cominciato a intonare Fratelli d'Italia e i coristi nel retropalco che le hanno fatto eco. Come se quel «moriremo democristiani» che era stato pronunciato come una iattura, di fronte ai Salvini e ai Di Maio diventati nuova razza padrona, si fosse oggi trasformato in una speranza. Un'invocazione a quella croce che marchiava lo scudo della Dc, così simile a quella che nel libretto di Temistocle Solera è fatta impugnare al vecchio papa Leone I in testa alla processione che appare in sogno ad Attila e gli intima di restare lontano da Roma, dopo aver raso al suolo la sventurata Aquileia. Fin troppo facile, allora, intrecciare l'opera verdiana, l'attualità politica e il sentire di quella società civile di rito ambrosiano che anche quest'anno si è data appuntamento per la sua celebrazione laica. «La cultura e la musica sono l'ultimo baluardo per la democrazia», ha sentenziato Mattarella incontrando il maestro Riccardo Chailly in camerino durante l'intervallo. «Chiaro che in quell'applauso interminabile al presidente Mattarella - hanno detto in molti tra i velluti rossi - c'è tutta la voglia di questo Paese di stringersi intorno a un'istituzione che restituisca unità nazionale e soprattutto la stabilità necessaria a riconquistare la fiducia internazionale». Necessaria, la chiosa implicita, a quell'economia così ben rappresentata su poltroncine che ieri costavano la bellezza di 3mila euro l'una. Un appello alla reazione, paradossalmente messo in scena durante la rappresentazione dell'opera di un grande fan della rivoluzione come Giuseppe Verdi. Quasi a dire che non tutti i capovolgimenti sono di per sé buoni. Come tutto questo si possa conciliare con le grosse quantità di voti raccolte da leghisti e grillini che viaggiano tutt'ora con il vento dei sondaggi in poppa, è questione spinosa e da affidare alla politologia.

Sul versante del costume, invece, tutti concordi nel lodare la tradizionale eleganza del foyer milanese, interrotta solamente dai soliti fenomeni da baraccone dagli spropositati seni di plastica purtroppo inseguiti da fotografi e telecamere. Promossa ancora una volta con ovazione la direzione di Chailly e anche l'audace regia di David Livermore su cui alla vigilia qualcuno nutriva dubbi. Lodati da esperti come Fedele Confalonieri, Philippe Daverio e James Bradburne l'utilizzo ardito della tecnologia e la trasposizione della vicenda in un Novecento distopico raccontato nei colori lividi dei totalitarismi del secolo breve. Un'ossessione, visto che anche il Rigoletto che ha aperto la stagione dell'Opera di Roma con la direzione del maestro Daniele Gatti e la regia di Daniele Abbado, è stata sospeso in un'ambientazione novecentesca all'epoca della Repubblica di Salò.

Lampi di nazismo, ma anche di comunismo si sono visti ieri invece nell'Attila, con il pubblico che apprezzato. Loggione compreso. E, trattandosi di Verdi, questo è comunque un certificato di garanzia. Si vedrà nelle repliche.

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