Cronaca locale

Il fallimento di Pisapia Voleva unire la sinistra e si è arreso ancora

Dopo la rinuncia a fare di nuovo il sindaco e a candidarsi alle politiche, un altro tracollo

Il fallimento di Pisapia Voleva unire la sinistra e si è arreso ancora

Prima il Campo fu «aperto», poi fu «progressista». A un certo momento fu «Insieme». I confini? Vaghi, come i discorsi sulla «casa» costruita per unire. Il simbolo? Ibrido: un quadrato - quando si dice «fare quadrato» o creare perimetri - coperto da una pennellata arancione. Ma scontornata che - viene da dire - anche ai bambini si insegna a colorare rispettando le linee. Loro prima o poi imparano, il popolo di sinistra invece no. La voglia di uscire, dividere, sconfinare, è irrefrenabile. A meno di un anno dalla sua nascita l’esperienza politica guidata da Giuliano Pisapia, almeno a livello nazionale, si conclude. E c’è una domanda da fare a chi ci ha creduto: perché? Facciamo alcuni passi indietro. Marzo 2015: è già nell’aria da settimane ed è una scelta ponderata, forse, fin dall’inizio: Giuliano Pisapia non si ricandida sindaco, nonostante 5 anni di governo a bilancio positivo per quelli che lo hanno sostenuto. La reazione per molti, soprattutto per chi aveva aderito al suo movimento civico, è di smarrimento. Un’esperienza politica tutto sommato di successo quella degli arancioni, con pochi precedenti in cui sia stato un sindaco l’ispiratore, ma che si dissolve con la stessa rapidità nel mistero delle intenzioni del suo leader. Si vorrà candidare in parlamento? Chi lo sa. Segue un periodo di presenza ridotta sulla scena politica. Febbraio 2017. L’ex sindaco di Milano lancia la sua «cosa arancione» di respiro nazionale al Teatro Brancaccio di Roma: «Una rete di esperienze politiche, associative laiche e cattoliche, culturali, progressiste, democratiche, ecologiste e civiche su tutto il territorio italiano» (fonte: sito del movimento). La quantità di aggettivi è quasi pari alle buone intenzioni di cui sono lastricate ecc. Luglio 2017: la convention in piazza Santi Apostoli a Roma. Vi partecipano - senza trasmettere troppo entusiasmo - Pierluigi Bersani, Roberto Speranza e Massimo D’Alema che già allora avverte: «Ognuno si presenterà son il suo simbolo». La piazza è stretta, piena a malapena; il palco senza pretese e pure chi parla si rivolge sostanzialmente ai suoi. Ancora una volta ci si chiede: l’ex sindaco e avvocato punterà a Roma? Luglio 2017. La risposta è no. «Non penso neanche lontanamente di candidarmi alle prossime elezioni». La sede scelta per l’annuncio è un grigio albergo della periferia milanese, durante un altrettanto grigio congresso della Cgil. Cronisti presenti: due (fra cui la sottoscritta). La notizia diventa urgente senza quasi rendersene conto. Impossibile fargli domande al termine dell’evento. Come nei mesi a venire: il personaggio diventa mano a mano più evanescente. Un giorno è a Roma per creare alleanze, nello stesso giorno è in treno di ritorno a Milano e con i compagni da federare non ha mai parlato: nemmeno i suoi più stretti collaboratori sono d’accordo sull’agenda dei suoi appuntamenti. Strappargli una dichiarazione politica diventa un’impresa. Si fa più fitto anche il contraddittorio con i potenziali compagni di corsa. Ottobre 2017: alla camera del Lavoro di Milano, sempre durante un incontro sindacale, Massimo D’Alema lo attacca: «Non vorremmo fosse lui il partitino del 3%» rispondendo ad una critica di qualche giorno prima. Lo strappo è definitivo. Si va avanti così fino ad oggi. Quando sui territori si cerca di salvare il salvabile e arrivano note per ribadire che almeno nelle assemblee locali l’esperienza continua. Come e su quali principi è difficile spiegarlo. Alla luce di tutto questo, le domande si moltiplicano. Non si capisce perché un politico che abbia aspirazioni, e forse anche potenzialità, da leader aborrisca il candidarsi. Non si comprende perché la strategia scelta per unire un popolo difficile, come quello della sinistra, non sia quella di illustrare pochi e semplici punti chiari, ma quella di usare simboli, linguaggi e atteggiamenti pubblici sempre più vaghi. E soprattutto lascia stupiti la reiterata scelta di abbandonare prima ancora che la partita cominci. Le ragioni in questo caso hanno provato a spiegarle: colpa della legge sullo ius soli, ferma in Parlamento. E qui forse una risposta c’è: il poco realismo. Si tratta di un testo divisivo. Un provvedimento così, da che mondo è mondo, non si prende a ridosso di elezioni. È una irrinunciabile questione di principio? Forse. Ma allora la faccenda diventa un’altra ed è tutta politica.

Cosa differenzierà, di questo passo, un partito di sinistra da un movimento radicale che abbraccia battaglie, magari giuste, magari importanti, magari di civiltà, ma sostanzialmente minoritarie? Un dubbio resterà all’elettore che ci ha creduto (a cui va una meritata solidarietà): che a sinistra abbia vita più lunga ciò che è nato per dividere rispetto a ciò che è nato per unire.

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