di Stefano Bruno Galli*
Fa specie che un autorevole politologo come Angelo Panebianco si ostini ancora a definire impropriamente federalismo ciò che federalismo analizzandolo con il rigore scientifico proprio della sua disciplina, la scienza politica non è mai stato. Studiare la politica significa analizzare anche il suo vocabolario. Su «Sette», il professore bolognese parte da lontano per giustificare l'opzione centralista abbracciata nel 1861. E sostiene che fu una scelta obbligata dei «costruttori» dello Stato italiano. Tuttavia proprio l'adesione consensuale chiesta ai territori con i referendum di annessione al piano di espansione militare dei Savoia, quale fu il processo di unificazione, all'indomani della proclamazione dell'Unità esigeva la convocazione di un'Assemblea costituente, dove si sarebbero potute confrontare le diverse tesi. Ma fu negata. L'opzione unitaria era infatti minoritaria di fronte alla struttura geopolitica della penisola, articolata nei sette Stati preunitari che faceva piuttosto propendere per una prospettiva regionalista (Minghetti) o federalista (Cattaneo e Ferrari). Secondo Panebianco, l'illusione federalista di andare contro la storia ha portato alla «sciagurata» riforma del 2001 che deve essere azzerata con il referendum autunnale. Ma quella riforma costituzionale, quindici anni fa, fu promossa dal centrosinistra che oggi sotto mutate sembianze ne promuove l'annullamento con una pessima contro-riforma, piena di contraddizioni, che getterà il Paese nel caos. Il centrosinistra fa quello che vuole con la Carta fondamentale della Repubblica. Ma non era la Costituzione «più bella del mondo»? Con quale coerenza si mette nelle mani di Renzi e della Boschi la Costituzione solo per fare qualche nome di Calamandrei, Terracini, Ruini, Dossetti, La Pira, Moro, Mortati, Togliatti, Basso, Lussu, Einaudi? Panebianco dovrebbe chiedersi perché la riforma del 2001 che comunque una sua coerenza ce l'aveva ha funzionato poco e male. Anzitutto perché il Parlamento non ha mai fatto la legislazione di dettaglio: l'idea del conflitto cioè delle competenze «concorrenti» mal si concilia con la collaborazione funzionale propria di una democrazia multilivello. Eppoi perché l'attribuzione delle nuove competenze è avvenuta su un impianto fortemente centralista in ordine alla concezione e all'esercizio dei poteri qual è quello della Costituzione repubblicana. La verità è che, contestualmente allo sviluppo del regionalismo, non si è regionalizzato lo Stato centrale e neppure il sistema dei partiti, veri detentori del potere politico. La storia insegna che è profondamente sbagliato individuare negli scandali e nelle crisi economiche e sociali la ragione delle riforme. Oltretutto, vedere nell'organizzazione delle istituzioni le cause della più generale crisi del sistema è fuorviante. Le istituzioni camminano sulle gambe degli uomini. E i partiti, negli ultimi decenni, si sono dimostrati del tutto incapaci di selezionare una classe politica tanto regionale, quanto nazionale di qualità. Questo è il punto, non giriamoci intorno.
*professore di Storia delle Dottrine
e delle Istituzioni Politiche dell'Università degli Studi di Milano
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