«Una volta pensavo che i pagliacci in corsia servissero solo a distrarre i bambini». Una volta, appunto. Ora Rodrigo Morganti, leva 1973, dopo diciotto anni di carriera, si è reso conto del potere nascosto in una risata: meglio di una medicina.
Lui è il primo clown del sorriso in Italia, lavora per la fondazione Theodora ed il suo nome d'arte è «dottor Strettoscopio». Si aggira nei corridoi dei reparti più difficili dell'Istituto Tumori e del Besta, quelli in cui i bambini hanno la voglia di scherzare ma non le forze fisiche per farlo.
Dottor Strettoscopio, come fa a portare allegria là dove si soffre e dove le malattie sono spesso incurabili?
«Cerco di conquistare la fiducia dei bambini. Anche se indosso una maschera non dico mai bugie. E in ospedale sono l'unico che non li obbliga a fare quello che non vogliono».
Niente a che vedere con numeri da circo quindi?
«Uso palline e trucchetti solo qualche volta, magari per rompere il ghiaccio. Poi si diventa amici e si chiacchiera. Non tratto mai i bambini come malati».
Però li accompagna nelle visite più complicate?
«È capitato. Mi ricordo una volta al San Gerardo di Monza. Accompagno un bambino di 8 anni a fare una rachicentesi, un esame molto doloroso. Gli voglio dare coraggio ma, quando vedo l'ago, comincio a sudare e sto quasi per svenire. E il bambino che fa? Mi dice: Forza dottore, non devi aver paura, mi prende la mano. Io resto secco. È condivisione anche quella».
Come fa a gestire il lutto e il dolore per i pazienti che non ce la fanno?
«È davvero dura. Nel mio cuore ho tutti i miei angioletti che non ci sono più. Per parecchio tempo ho tenuto le loro foto nella borsa e sul telefonino. Poi ho deciso di cancellarle, ho avuto bisogno per un attimo di prendere le distanze».
Ricordi particolari?
«Una ragazzina di 16 anni. Bellissima. L'ho incontrata sia al Besta sia all'istituto tumori. I pazienti delle altre stanze la corteggiavano. Quando l'hanno dimessa, il padre mi ha chiamato a casa per un lavoro extra: farle fare un ultimo sorriso. L'ho fatto con tutto il mio cuore».
E con i medici veri che rapporto ha?
«Anni fa c'era un po' di diffidenza. Piano piano si è creato un bel rapporto di collaborazione. Qualche primario, vedendomi nella stanza dei pazienti, ha anche scherzato dicendo: Ah, c'è già il mio collega, passo dopo. Anche i medici hanno capito l'efficacia di una risata».
Come ha iniziato?
«Per caso. All'inizio nemmeno volevo entrare in ospedale. Mi ero detto: provo e poi mai più».
Ma?
«Ma l'ultimo giorno del mio stage di formazione in Svizzera, in un ospedale di Ginevra, sono entrato nella stanza di un bimbo terminale. Non ho trovato disperazione ma serenità: in lui e nei suoi genitori. Mi è scattata una molla dentro».
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