«Pensavo, a 17 anni, di voler fare il poeta». C'è riuscito. Solo che Giovanni Gastel ha preferito scrivere su pellicole anziché sulla carta, e ogni suo scatto è un endecasillabo perfetto di eleganza e mistero. A volte un endecasillabo volutamente sgualcito, altre, invece, così pregno di Novecento e seduzione che se lo vedesse Paolo Conte si metterebbe di corsa al pianoforte e sarebbe subito jazz e aria di melarancia e scarpe nuove di pioggia e pensieri.
Sì, per parlare di Gastel - «Mi ha aiutato questo cognome così insolito...» - occorre usare per forza un linguaggio ritmico, ellittico, swing, pieno di presente e futuro, a metà tra il fumo delle Gauloises nelle caves di Saint Germain negli anni Quaranta e un glamour che risponde prima alla fierezza che alle bolse esigenze del marketing. Oppure basta lasciar fare a lui, nato nel 1955 a Milano e nipote, con i suoi sei fratelli, di Luchino Visconti. Lasciar fare alle sue parole, affabulatrici e calme, pronunciate con unarmonia che mai cade, nemmeno per un momento. È quello che abbiamo fatto.
«Certo che volevo fare il poeta. Ma a quell'età cominciai a scattare anche le prime foto e, come accade di solito, fu una ragazza a convincermi delle mie capacità. Mi vedeva come un fotografo alla Blow Up. Ma sono un fotografo milanese. Non era ancora esploso il made in Italy, feci una gavetta dura, solitaria e divertente, e infine, nel 1976, mi misi in proprio in una cantina a volta di via Mascagni, che poteva essere tutto tranne che uno studio fotografico».
E già incalzava un'altra epoca...
«Quella che Alberoni ha chiamato il "rinascimento dello stile" a Milano. Affluivano in città Versace, Ferré, era verso la fine dei Settanta. Fabio Lucchini, fuoriuscito dalla Condé Nast, fondò Donna, che divenne una fucina di giovani talenti della fotografia. Senza scuole né assistentato, arrivai a far parte del gruppo. Non avvertii di cambiare mestiere tra poesia - volevo ancora scrivere - e fotografia».
Perché?
«Nella costruzione mentale dell'immagine le due arti si somigliano molto. Comunque lavorai per anni per gruppi concorrenti, l'unico a poterlo fare insieme ad Oliviero Toscani. Poi, un decennio di fedeltà a Donna. Poi, emigrai a Parigi. O meglio, vivevo tra Milano e Parigi. Feci campagne per Guerlain, per Dior e Nina Ricci. A Parigi mi sento a casa».
Quanto durò?
«Dall'86 al '96. Poi rientrai a Milano. Elle, Vanity... Noi fotografi veniamo acquistati come calciatori. Meglio così. Mi diverte tutto quanto è fotografabile. I fotografi d'arte guardano noi cugini della moda come viziati dal denaro, dalle donne, ma non è così. La prossima mostra, a settembre, è tutta sul dolore, strano soggetto per un modaiolo, no?».
Anche per un milanese, se posso permettermi la battuta...
«Già, Milano... La amo profondamente, ma la capisco relativamente. La cosa che più salta all'occhio è la staticità. In dieci anni a Parigi ho visto sorgere interi quartieri, che ti danno una fiera appartenenza alla città. Qui succede così poco. Ma è la cosa più vicina alla metropoli che abbiamo».
Adesso arriva l'Expo...
«Sarà un'ottima occasione per uscire da quella immobilità dietro cui, per anni, ho persino sospettato ci fosse una strategia per imporre una pax sonnolenta. Sono favorevole al movimento. Non importa se lo contesteranno. Qualcuno disse che si sentiva artista quando metà del pubblico applaudiva e l'altra metà fischiava. È sempre stato valido per me come creativo e vorrei che lo fosse per la città. L'arrivo dell'Expo spezza una sonnolenza troppo prolungata, dentro la quale abbiamo sostanzialmente perso il treno della moda e gli alberghi chiudevano alle nove di sera. Milano poteva diventare la nostra Parigi. Ancora oggi l'approccio serio al lavoro, la gestione degli orari, lo studio continuato sono delle milanesità che possono avere un futuro e che mi appartengono del tutto come fotografo».
E la foto che accompagna l'intervista?
«Un gioco. Perché io ho anche un'anima pop.
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