La conferma potrà venire solo dalla comparazione del Dna, ma sembra ci siano pochi dubbi sull'identità dei poveri resti carbonizzati scoperti in un campo della Brianza. Appartengono a Lea Garofalo, 39 anni, ex collaboratrice di giustizia, torturata, per sapere cosa abbia raccontato ai magistrati, e poi uccisa dall'ex marito e dal fidanzatino della figlia. La collana e altri monili emersi nei pressi del cadavere sono stati infatti riconosciuti proprio dalla ragazza, Denise, che almeno adesso avrà una tomba su cui piangere la madre. Un colpo di scena che potrebbe essere frutto di qualche tardivo, e interessato, pentimento di uno dei sei condannati per la morte della donna in vista del processo d'appello.
Il ritrovamento dunque pone definitivamente la parola fine su una vicenda iniziata esattamente tre anni fa, il 24 novembre 2009, con la scomparsa della donna. Lei e la figlia Denise, 21 anni, vengono riprese insieme dalle telecamere poste all'Arco della Pace, poi si separano e Lea va incontro al suo destino. Cade infatti nella mani dei fratelli Cosco: oltre a Carlo partecipano all'azione Giuseppe detto «Smith» per la sua predilezione per i revolver Smith & Wesson e Vito detto «Sergio», insieme a Massimo Sabatino, Rosario Curcio e Carmine Venturino. Quest'ultimo in particolare è il fidanzatino di Denise, incaricato dai clan di corteggiarla proprio per capire cosa potesse avere detto la madre sui traffici delle cosche calabresi. Per capire il movente del rapimento infatti bisogna fare un passo indietro di sette anni quando nel 2002, Lea Garofalo stanca dell'attività criminale del marito, andò dal magistrato e raccontò di traffici di droga e omicidi. Entrò nel programma di protezione insieme alla figlia, ma rimase stranamente sempre in contatto con Cosco. Che prima la rintracciò e le mandò un killer a Campobasso, poi riuscì a farla venire a Milano per parlare del futuro della figlia. E ora Lea è nelle sue mani. Cosco non è un boss di primissimo piano ma vuole sapere cosa abbia raccontato la donna sugli affari della 'ndrangheta nella speranza di acquisire meriti e gradi. Dopo il sequestro avrebbe dunque condotto la vittima in un capannone in Brianza dove l'avrebbe torturata, uccisa con un colpo di pistola in testa e quindi sciolta nell'acido. I sei vennero arrestati dai carabinieri nel 2010, dopo che un detenuto aveva riferito le loro vanterie in carcere, processati e condannati all'ergastolo e proprio alla vigilia dell'appello il colpo di scena. La donna non sarebbe stata assassinata con un colpo di pistola ma strangolata e il suo corpo non dissolto ma bruciato e sepolto in un campo. Particolari che dovrebbero cambiare di pochissimo la posizione dei condannati. A meno che il ritrovamento non sia stato reso possibile dal «pentimento» di uno di loro per ottenere uno sconto di pena proprio in vista del secondo grado.
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