Nel Milanese e in Lombardia il record di arruolati nell'Isis

Un foreign fighter su tre partito dalla nostra regione; in 8 storie c'è viale Jenner, che ha denunciato un caso

Nel Milanese e in Lombardia il record di arruolati nell'Isis

Giovane, maschio, non nato in Italia ma immigrato. A volte dedito agli stupefacenti. Spesso residente in Lombardia e in un caso su due frequentatore almeno occasionale di un luoghi di culto.

Sono i tratti prevalenti o ricorrenti nei profili dei «foreign fighters» italiani, cioè dei combattente che per ragioni «ideologiche» (pseudoreligiose) sono partiti per unirsi a formazioni impegnate in attacchi o ribellioni in qualche Paese del mondo, prevalentemente Siria, Iraq e Libia. Il profilo maggioritario del combattente italiano viene delineato dall'ultimo rapporto Ispi, appena uscito e ricavato dalle informazioni aggiornate e fornite in via esclusiva dal ministero dell'Interno, a proposito dei 125 individui legati all'Italia che si sono recati in aree di conflitto. Particolare inquietante che emerge nello studio, curato da Francesco Marone e Lorenzo Vidino, è che su 125 foreign fighters italiani, ad aprile 2018, 24 (il 19,2% del totale) siano già ritornati in Europa e di questi 12 in Italia (il 9,6%). L'ipotesi è che almeno 30 siano ancora attivi nell'area del conflitto, anche se le informazioni sono ovviamente incerte. Nel rapporto, intitolato «Destinazione jihad. I foreign fighters d'Italia», emerge che risiedeva in Lombardia quasi un guerrigliero su tre (il 31,7%), fra quelli associati a un luogo. E oltre uno su otto (il 13,4%) risiedeva nella provincia di Milano.

E Milano compare spesso nel rapporto, che però nota come l'Italia - nel caso del conflitto siriano - abbia numeri inferiori rispetto ai Paesi vicini e rispetto al passato. Il passato evocato è in primo luogo quello delle guerre nei Balcani: viene ricordata «la centralità di network egiziani e maghrebini basati in Lombardia durante il conflitto bosniaco, quando la moschea milanese di viale Jenner fungeva da vera e propria porta d'ingresso ai Balcani». E la figura dell'imam milanese Anwar Shabaan, «assurto al rango di leader del Battaglione dei mujaheddin stranieri impegnati in Bosnia». E ancora si cita il ruolo del «network di viale Jenner» in «quello che sarebbe passato alla storia come il primo attentato suicida di matrice jihadista in Europa: un'autobomba guidata da un egiziano residente a Milano contro una caserma della polizia croata a Fiume/Rijeka nel 1995».

Quanto alla stagione irachena, «partirono in pochi», ma si indica il caso «tristemente famoso» dell'algerino Fahdal Nassim, che morì nell'attentato del 2003 al quartier generale dell'Onu a Baghdad.

Nel database attuale, l'Istituto culturale islamico di viale Jenner «compare in relazione a otto foreign fighters». Otto individui diversi. E i ricercatori rivelano che in un caso (almeno), l'aspirante «soldato» in cerca di un'occasione di reclutamento è stato cacciato dal centro e segnalato a chi di dovere. Lo studio descrive accuratamente la figura chiave di Moez al-Fezzani («Abu Nassim») reclutatore e figura chiave della galassia jihadista italo-tunisino-libica entrato in Italia per la prima volta nell'89, vissuto principalmente a Milano (a San Siro) e poi tornato in Libia nel 2014. Fra le muhajirat («emigrate») cita Maria Giulia Sergio, convertitasi all'islam e residente a Inzago. Ma la ricerca si occupa anche di profili meno noti, come il marocchino del '69 che era in contatto con un ex imam ed è partito per la Siria nel 2014 insieme alla moglie e ai due figli (di 15 e 10 anni). Immigrato in Italia nel 1990, era residente a Bresso.

O come il combattente E.W., partito da Milano per la Siria nel 2012, aderente alla milizia «Ajnad Al-Sham», e in seguito divenuto addetto alla propaganda del gruppo armato, agendo anche da collettore e smistatore di fondi raccolti in Italia.

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