Cronaca locale

«Noi e il teatro dell'Elfo 40 anni sul palco sfidando i classici»

«Noi e il teatro dell'Elfo 40 anni sul palco sfidando i classici»

Eccezionalmente, per l'anno accademico 2013-14, il corso di Storia del Teatro all'Università Statale di Milano è stato rinominato in Cattedra di Elfologia. Più di 400 studenti, molti dei quali seduti per terra e nei corridoi, gremiscono le lezioni di Alberto Bentoglio che, per l'intero quadrimestre, saranno dedicate alla storia della compagnia nata a Milano quarant'anni fa. Sui quei quattro decenni vissuti avventurosamente, Bentoglio, insieme con Alessia Rondelli e Silvia Tisano, ha scritto un libro («Il Teatro dell'Elfo 1973-2013», ed. Mimesis) dotto e minuzioso, in cui si documenta come un manipolo di «ventenni leggeri e creativi (e un po' cattivelli)» degli anni '70 abbia saputo conquistare la scena milanese, sino all'insediamento nel rinnovato Puccini. I retroscena però sono ben altra cosa e abbiamo cercato di carpirne qualcuno a Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani. Ovvero i direttori artistici (e i due volti più noti) dell'Elfo, ai quali abbiamo fatto le stesse domande tenendoli reciprocamente all'oscuro delle risposte. Lo spettacolo più disastroso della vostra storia? «Ce ne sono stati tanti - risponde Bruni - ma per fortuna appartengono a un passato ormai lontano. Direi il Volpone di Ben Johnson diretto nel 1979 da Gabriele Salvatores. È stato uno dei nostri primi adattamenti di classici. Ottime intuizioni registiche, ma una scenografia che era un costante invito a inciampare. E poi, non so perché, ci inventammo un doppio cast che si alternava di sera in sera. Peccato che nessuno di noi si ricordasse quando era il proprio turno». De Capitani mette invece al primo posto la prima versione di Il servo, drammaturgia e regia di Markus Imhoff, 1986. «Non siamo neppure arrivati al debutto - ricorda - Imhoff era maniacale, interrompeva a ogni battuta. Dopo due mesi di prove sfinenti e inconcludenti, per la rabbia ho spaccato una sedia sul palcoscenico. Volevo picchiarlo». Ai due chiediamo: qual è stata la prima volta in cui avete visto l'altro in una situazione teatrale? «Ero a Varigotti - ricorda Bruni - all'inizio degli anni '70, con la compagnia, di cui Elio non faceva ancora parte. Andammo a trascorrere il dopocena nella sua casa di vacanza. Ci raccontò una barzelletta da un'ora e un quarto, parecchio demenziale, ambientata in una castello in Scozia. Pensai: ha la stoffa dell'intrattenitore, ma deve imparare a limare i tempi». De Capitani ribatte: «Fu allo spettacolo di debutto al Centro Culturale Lepetit nel marzo del 1973. Bruni sembrava davvero un elfo, aveva capelli lunghi e nerissimi, una buffa tuta bianca. Ma la mia attenzione era tutta per Cristina Crippa. Il prezzo per conquistarla era fare teatro. Decisi di pagarlo e la sposai». Shakespeare e Fassbinder sono i numi tutelari dell'Elfo, a loro sono dedicate le sale più importanti del Puccini. Se proprio doveste scegliere tra i due? «In nome dell'importanza che ha avuto per la compagnia, decisamente Fassbinder - dice Bruni - Gli spettacoli tratti dai suoi testi per noi hanno rappresentato una svolta». De Capitani ride: «Di sicuro Bruni avrà scelto Shakespeare perché non gli dobbiamo pagare i diritti d'autore. E invece io opto per Fassbinder.

È un grandissimo che non ha ancora avuto il riconoscimento che gli spetta».

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