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Nostalgia del cinema: in città sparite 170 sale

Dal Rubino al Rialto i locali più popolari Adria, Mignon e Cavour cadaveri eccellenti

Nostalgia del cinema: in città sparite 170 sale

Posto unico. La cassiera, solitamente matronale, staccava una strisciolina di carta rosa che all'occorrenza era anche azzurra o gialla. All'ingresso, un uomo ne strappava un'altra parte. Sul biglietto quelle due parole. E poche righe illeggibili. Nulla più. Perché nulla più serviva. La briciola di carta finiva in tasca e lì langueva. Dimenticata. Finché una mano arrogante, senza guardarla, la stropicciava, gettandola via. Nessuno la reclamava e a nessuno serviva. Fuori dal cinema il selciato era spesso un tappeto multicolore. Qualche nostalgico la conservava. Faceva rima con un primo bacio, non con il film. Ma tutti, dopo aver spostato quella tenda di velluto rosso, entravano in un altro mondo. Fatto di fantasia e immagini. Libertà. I sedili erano contrassegnati da un numero che a nulla serviva. Come le file. Chiunque si sedesse poteva scegliere. Brontolare non era vietato. Le platee ad anfiteatro non c'erano, solo lo schermo stava più in alto. E la cervicale cainava. Immancabilmente compariva la solita coppia sulla sessantina. Lei fresca di parrucchiere con acconciatura alta dieci centimetri ne copriva una parte. Lui con un cappello inamovibile ne celava un'altra. Non si è mai capito perché non lo togliessero, ma noi ragazzi anni Settanta non avevamo il coraggio di chiederlo.

Così, alle loro spalle scattava la caccia allo spiraglio. Avvicinava visi, alimentava insofferenze. Nuovi spostamenti. In sala era tutto permesso. Anche se non si stava comodi. Le sedie, in legno, avevano piccoli vantaggi. Ci si poteva appoggiare le suole. Con le braccia cingere le gambe, trasformando le ginocchia in un appoggio per il mento. Appollaiati timorosi, tossivamo. Perché i grandi fumavano. Buttavano la cenere per terra e con la scarpa spegnevano la brace.

La magia di quel buio ha colori di nostalgia. Rumori dispersi nell'eco del tempo. Il fruscio del proiettore che accarezza frettoloso pellicole logorate da milioni di visioni. Talvolta s'inceppavano. Poi ripartivano. Ansimando come vecchie locomotive. O vecchi e basta. C'erano anche loro, in attesa di allungare casualmente mani randagie su gambe attigue che non fossero le loro. All'intervallo, perché c'era anche quello, tutto tornava in perfetto ordine come se nulla fosse accaduto. Se il vecchio fosse rimasto composto e il signore col cappello non avesse sfiorato con le dita frontiere proibite, sussurrando all'orecchio di lei qualcosa che l'aveva intrigata. C'era pure chi tirava fuori il giornale e lo riponeva all'abbassarsi delle luci. E il monello. «Maschera, mi toccano» esplodeva. E l'altro, austero, coprendo la voce di Woody Allen o John Wayne, tuonava. «Fatti pagare».

Poi tornava il silenzio.

Era lo spettacolo nello spettacolo. Fino alla fine. «The end». Quando la musica scazzottava a suon di decibel la cortina di fumo non è detto che tutti uscissero. Dalla stessa porta da cui altri entravano. Si poteva vedere e rivedere ogni scena. Talvolta era necessario, arrivando a metà. Gli orari erano un'idea. Un concetto vago. All'ingresso una luce rossa indicava se fosse in corso il primo o il secondo tempo. O l'intervallo. Nessuno impediva a nessuno di vedere il finale e poi il principio. Caos ordinato.

Storie di un cinema che non esiste più. Oggi è vietato stare in piedi. Allora - pur di non perdere Il laureato per la decima volta - lo si guardava appoggiati alla parete. O seduti sul passaggio. Chi usciva ammoniva chi entrava. «Bella boiata». Tardivo anche per i più puntuali. O svelava l'assassino. Monellerie ora bandite da percorsi obbligati. Posti assegnati. Platee in crescendo, dalla fila più bassa all'ultima. Lassù. Dove nessuna signora imparruccata e nessun uomo col cappello possono arrivare.

Storie di cinema sventrati dalla memoria. Ne sono spariti più di 170 e non erano solo «altre visioni», cioè le più economiche. L'ultimo a morire è stato l'Apollo, ma c'era il Mignon che ha chiuso lo stesso anno del Cavour. Del Maestoso. Del Mediolanum. Era il 2007, annus horribilis delle sale milanesi. Dodici mesi prima il catenaccio era scattato al Nuovo Arti, il cinema dei cartoon, dove plotoni di bimbi e genitori a carico avevano visto Biancaneve e Mary Poppins. Lilli e il vagabondo e Bianca e Bernie. E, prima ancora gli adulti non si erano persi Louis Malle. Cognome e nome: Lacombe Lucien, una storia di dittatura e sofferenze. Per non parlare di Ambasciatori, Excelsior e Adria Rugabella dove si poteva fumare anche se ovunque era vietato perché l'areazione lo consentiva. O il President dalle insuperabili poltrone, che aprì nel '77 e tenne a battesimo l'esordio di Meryl Streep in Giulia di Fred Zinneman.

Era il '79 quando fu smantellato il Rubino, uno dei rifugi della bigiata per alunni in fuga dai prof. E un anno dopo toccò al Rialto in via Molino delle Armi, tempio di capolavori per poveri. Si entrava con due lire e si vedeva la storia del cinema. Da Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan a Le notti di Cabiria di Fellini passando per Clint Eastwood diretto da Sergio Leone e Arancia meccanica. Banche. Grand hotel. Negozi di abbigliamento ne hanno preso il posto.

Perfino un comando di polizia, insediato dal '62 dove un tempo era il Littorio, poi diventato Alhambra alla caduta del Duce. Alcuni restano ancora oggi con la presenza assenza del loro fantasma, come l'Orchidea e l'Imperiale. Vuoti simulacri di un tempo che fu.

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