Perché violenze e delitti sono impuniti

Sono molti i difetti del sistema di aiuto. Leggi e magistrati spesso inadeguati

Perché violenze e delitti sono impuniti

«Dottore, ma io non lo sapevo che non si potesse picchiare la propria moglie!». Tutto, per il giudice Fabio Roia, cominciò così: in una sala del carcere di San Vittore, dove un uomo (non un analfabeta, un italiano evoluto ed istruito) era rinchiuso per avere riempito di botte la donna che aveva avuto la sventura di sposarlo. Era il 1992: anni dopo la rivoluzione femminista, i referendum sul divorzio e sull'aborto, insomma dopo le svolte epocali che dovevano innovare insieme alle leggi anche il comune sentire. Quel giorno Roia si dovette rendere conto di quanto lunga fosse ancora da compiere la strada perché le violenze sulla donne fossero percepite e punite con l'esecrazione che meritano.

A venticinque anni di distanza, Roia ha scritto un libro che condensa il know how accumulato occupandosi quotidianamente - come magistrato, studioso e formatore - delle prevaricazioni ai danni delle donne: dalle più banali alle più tragiche, che spesso delle prime sono il punto di approdo. Potrebbe sembrare un manuale di istruzioni, una guida per difendersi ed intervenire: ed in parte lo è. Ma è anche una analisi spietata della incapacità del sistema di affrontare con cognizione di causa l'emergenza della violenza sulle donne. A dispetto dei proclami e delle campagne di sensibilizzazione, a volte gli addetti ai lavori sono i primi a mostrarsi inadeguati di fronte ai casi di cui si occupano: «Dietro questa patina spessa e stratificata di conformismo, di culturalmente corretto, si muovono pregiudizi, stereotipi, operatori che non ci credono, che non conoscono le leggi e le dinamiche della violenza di relazione e che intervengono male, creando ulteriori danni a chi ha sofferto e soffre», scrive Roia: «Non tutte le istituzioni funzionano come dovrebbero». E chiama in causa un po' tutti: dagli assistenti sociali, ai medici, agli avvocati, alle forze di polizia, agli stessi magistrati, a volte impreparati davanti alle esigenze tutte speciali di questo genere di reati.

C'è stata un'epoca non lontana, d'altronde, in cui la maggioranza dei giudici - focalizzati su inchieste di ben altro impatto mediatico - guardava con sufficienza ai loro colleghi impegnati su questo fronte: ribattezzandoli «maranoidi», dal nome dell'ispettore di polizia Domenico Maranò che di queste inchieste era innovativo protagonista, soprattutto nella fase delicata dell'interrogatorio delle vittime. Da allora il clima è fortunatamente cambiato, e con esso le sensibilità e soprattutto le leggi. Ma proprio il profluvio di nuove norme, non sempre coordinate e raramente assimilate, ha reso ancora più necessaria la formazione di figure e uffici specializzati all'interno di tutte le categorie chiamate a svolgere il loro ruolo.

Dai maltrattamenti in famiglia, alla violenza sessuale, allo stalking fino al cyberstalking: nel suo libro Roia, oggi presidente di sezione del Tribunale di Milano, ricostruisce meticolosamente tanto il quadro normativo che le modalità concrete di applicazione delle leggi. È un quadro complesso, frutto di leggi nazionali ma anche di convenzioni internazionali come la carta di Istanbul, e tradotto in pratica da protocolli comunali e regionali.

Di ognuno, il libro indica i pregi ma anche le criticità: ad esempio segnala come consentire a una vittima di violenza di ritirare la querela la esponga inevitabilmente a pressioni di ogni genere per costringerla a fare retromarcia.

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