Un testo, prima di andare in scena, va studiato e approfondito, non basta leggerlo una sola volta per credere di aver trovato il modo per realizzarlo, magari utilizzando altri testi e renderlo più moderno. Accade il contrario, perché tutto ciò che è spurio, il palcoscenico lo vomita, come per avvertirti che stai sbagliando, e, pertanto, di non perseverare. Convinti di aver trovato la strada maestra per «raccontare scenicamente» una trama, alcuni autori-attori vanno avanti, giustificando il lavoro fatto come qualcosa che abbia attinenza con una progettazione in fieri. Accade così di assistere a spettacoli incompleti, raffazzonati, giustificati come «opere aperte» che, all'orecchio e alla vista dello spettatore, si presentano pieni di difetti e di improvvisazioni lessicali. Nell'era della performatività, ciò che conta è quello che si vede e non ciò che si ascolta. Si teorizza la funzione del corpo, ritenuta più autentica di quella della parola, tanto che il corpo viene vissuto, non più come un groviglio di carne, ma come forma espressiva, oltre che estetica. Spesso lo si deforma, come accade nella pittura di Freud o Bacon, fino a diventare scrittura scenica. Allora qualcuno si chiede, perché il corpo della parola, che è eguale a quello fisiologico del corpo, non debba essere anch'esso deformato? Quali potrebbero essere le conseguenze? In questi mesi, abbiamo assistito a un abuso di testi, presi in prestito dalla classicità, mi riferisco alla Orestea della Compagnia Anagoor, realizzata al festival di Venezia, per la quale gli autori non si sono fatti mancare proprio nulla, tanto che il povero Eschilo ha visto naufragare il suo testo in una marea di contaminazioni che hanno scomodato persino la traduzione e lidea filosofica di Emanuele Severino, scritta per Franco Parenti e Andrèe Ruth Shammah, e mi riferisco ancora al Calzolaio di Ulisse, la cui versione definitiva arriverà al Teatro Strehler. L'epopea di Ulisse sembra aver contaminato, quest'estate, molti artisti i quali, non avendo di meglio da fare, hanno imbottito i classici di piccole trovatine per renderli nostri contemporanei. La loro qualità migliore consiste nel deformarli. Il calzolaio di Ulisse, di Marco Paolini e Francesco Niccolini, che ho visto al Teatro Romano di Verona in forma non definitiva, è uno spettacolo ibrido, che utilizza la parola raccontata, con interventi musicali che non aggiungono nulla a quanto trasmesso da Omero. Qual è l'idea che ha affascinato gli autori? Contaminare la classicità con la contemporaneità, credendo di far rivivere il racconto omerico con rimandi all'attualità, in particolare, a quella dei migranti, facendo, di Ulisse, il primo dei tanti clandestini. Contaminare oggi è diventata una moda per eludere la mancanza di idee, ne vengono fuori dei minestroni pseudo intellettuali che si tenta di teorizzare, ma che sulla scena non funzionano. Non basta l'uso superficiale di una terminologia moderna, oppure l'utilizzo di battute che riguardano i bisogni fisiologici, si spera facciano ridere. Qualcuno, al Teatro Romano di Verona, esaurito, c'è cascato, solo che quelle battute sono apparse come un corpo estraneo. C'è anche da dire che «Il teatro dell'oralità» ormai è agli sgoccioli, benché si continui a usarlo, proprio perché ha esaurito la sua carica vitale, nel senso che ormai ha il sapore di stantìo. La narrazione del Calzolaio ha inizio con l'incontro di Ulisse con un ragazzo (soprassediamo sulla recitazione), il quale gli ricorda il vaticinio di Tiresia, secondo il quale, Ulisse dovrà attraversare il mare per raggiungere la terraferma, con un remo sulle spalle e che, solo dopo aver incontrato un uomo che gli chiederà cosa fosse quel legno, egli potrà rientrare nella sua Itaca. A questo punto parte il flashback e le avventure di Ulisse vengono contaminate con storie di Dei, prese in prestito da un qualsiasi dizionario mitologico e con «battute» che, sul palcoscenico, non hanno alcuna qualità perché privi di una vera drammaturgia. Oggi sono tanti, dico tanti, gli attori che utilizzano monologhi accompagnati da gruppi musicali, sfruttando il «teatro dell'oralità», la cui pertinenza appare loro come un medium, mentre la sua funzione è sempre più in fase di esaurimento. Perché accade tutto questo? Perché si ritiene che il teatro verbale, quello dei classici, per intenderci, sia considerato superato e che, al suo posto, nell'era della contaminazione di massa, sia più giusto raccontare, piuttosto che rappresentare, magari facendo ricorso ai bigini delle storie passate, oppure occultando il testo per sostituirlo con l'immagine. Non ho nulla contro questi «generi», dico soltanto che, avendo concluso la loro lunga stagione, sono ormai agli sgoccioli. Basta avere il coraggio di dirlo. Non tutti possono essere dei Bob Wilson o Robert Lepage i quali, con più coerenza, hanno fatto ricorso alla tecnica per i loro spettacoli, ritenendola metafora di un nuovo modo di guardare la scena che si impone, soprattutto, per l'uso del «Teatro immagine» che, a sua volta, è frutto dell'azione della luce, sempre però a discapito del testo, usato come canovaccio per dare libero sfogo a una fantasia costruita su una contaminazione senza logica. È accaduto, col passare degli anni, che l'idea iniziale, quella che usava il video per liberare la scena dal testo (ritenuto ingombrante), sia stata sottoposta a una serie di iterazioni tali da creare una sorta di immobilismo, se non di staticità della scena stessa. Questa idea, grazie ai ritrovati della tecnologia, è stata ripresa da giovani gruppi di avanguardia e utilizzata come nuovo linguaggio, benché di nuovo non abbia nulla, se non un più adeguato uso della macchina scenica.
Quanto accade oggi sul palcoscenico sembra che rinunzi alla trama, col suo valore etico o politico-sociale, a vantaggio di una rappresentazione di immagini capaci di utilizzare la tecnologia visiva, oltre che quella acustica e luminosa. È il trionfo della morte, quella delle idee e del pensiero.
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