Il requiem di Eötvös salutato con rispetto

di Luca Pavanel

Lievi melodie, amalgame dense e compatte, strutture ritmiche da coreografia. Una complessa partitura in tre «atti» - separati da momenti di silenzio (in effetti necessario per il ricordo, ndr). Narrazione orchestrale efficace, incipit solitari ed evocativi del violino primo - e altri solisti - visto e interpretato dagli astanti come voce, le voci solitarie dei disperati.

Ecco il debutto di «Alle vittime senza nome» di Peter Eötvös, brano che il direttore-compositore ha scritto per ricordare i morti «del terrorismo, dei massacri e delle fughe disperate per terra e per mare (...)»: un pezzo sinfonico approvato con grande stima, ma senza enfasi dalla non facile platea scaligera, che si è trovata davanti a un programma coerente, tutto ungherese, tanto «spesso» e monocolore, quanto di livello e poco rassicurante rispetto al solito in sala. Filarmonica impeccabile alle prese con una scrittura raffinata e una direzione giusta, tra echi di tradizione, timbriche e sonorità stile avant-garde (del resto era un omaggio al collega Pierre Boulez, con cui il compositore ha spesso collaborato). Evanescenze.

L'altro lato dell'animo ungherese, il volto più malinconico ma anche critico, in questo caso davanti ai drammi epocali.

Altro che le sferzare barbariche del «Mandarino» di Bartòk - che alla fine surriscaldano l'applausometro - o il dotto folclorismo alla Kodàly. Eötvös porta la riflessione profonda e cupa, centra il tema. A spiazzare è il brano di György Kurtàg, «Petite musique solennelle en hommage»: sì, applausi accennati ma c'è chi, a ragione, resta incantato.

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