Sarebbe interessante intervistarli uno ad uno, questi socialisti milanesi dalle teste bianche, per chiedere: dove sarebbe oggi, secondo te, Craxi se fosse vivo? Se questa strana idea di festeggiare il compleanno di un morto fosse invece il compleanno di un vivo, di uno sopravvissuto in qualche modo come tanti altri alle tempeste dei processi e della politica? «L'unica cosa sicura - dice Stefano Pillitteri, suo nipote - è che non gli farebbe piacere che celebrassimo i suoi ottant'anni». E Giovanni Manzi, che fu uno dei suoi luogotenenti: «Non sarebbe qui. Sarebbe a Roma». Applausi.
Sulla tomba di Craxi - ad Hammamet, nella terra dell'esilio o della latitanza che dir si voglia - insieme alla frase «la mia libertà equivale alla mia vita», e alla data della morte, 19 gennaio 2000, c'è quella di nascita: 24 febbraio 1934. Vuol dire che ieri avrebbe compiuto ottant'anni. E in un vecchio circolo socialista di viale Montegrappa si sono ritrovati a festeggiarlo e a brindare un centinaio di anziani e di vecchi. Clima vagamente da reduci, anche se Pillitteri junior non ci sta: «I reduci sono quelli che hanno combattuto una guerra. Noi non abbiamo mai fatto guerre. Noi siamo stati bombardati». Ed è inevitabile cogliere lì, aleggiante sulla sala senza finestre, lo spettro mai indicato del cataclisma di Mani Pulite, dell'inchiesta che spazzò via il Psi e il craxismo. Ma anche l'era delle polemiche con i giudici è finita. Quello che resta è soprattutto la malinconia, che tiene insieme i resti di un esercito politico che a Milano fu quasi onnipotente: «E quello che ancora c'è di buono in questa città lo abbiamo costruito in quegli anni».
Dietro il tavolo ci sono gli uomini simbolo del ventennio socialista nella Milano da bere, Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, il primo sindaco della giunta rossa, il secondo della svolta moderata. In platea, mischiati ai socialisti, qualche vecchio democristiano come Michele Saponara, ex comunisti come Lodovico Festa, ex stalinisti come Mario Martucci. Ci sono inquisiti di una volta e inquisiti di oggi, come l'ex assessore Guarischi. Erano tutti craxiani, oggi sono i socialisti della diaspora, finiti di qua e di là, divisi nel giudizio sull'oggi (vedi l'opinione su Renzi, che per Paolo Pillitteri è uno che ha delle «rapidità craxiane», mentre per Enzo Collio è «un imbonitore che potrebbe vendere materassi») ma concordi nel rimpianto per il grande avvenire che hanno dietro le spalle.
Su intuizioni ed errori di quella stagione i giudizi, come è noto, sono discordanti. Ma quando prende la parola Carlo Tognoli, che è evidentemente dotato di una memoria quasi inquietante, è impossibile non cogliere il fascino dell'epoca in cui maturò la trasformazione craxiana della politica e della società: già dalla fine degli anni Cinquanta, quando l'alleanza tra Giacinto Pannella e Achille Occhetto bloccò la scalata di Craxi alla presidenza dell'Unione Goliardica, fino ai primi anni da assessore all'economato: «La refezione scolastica a Milano era una cosa tristissima, era la mensa dei poveri.
Poi vennero gli anni del potere e quelli del crollo, il Raphael, le monetine. Giannino Guiso, che del Craxi imputato fu il difensore quasi inerme, ieri sera è in prima fila, silenzioso.
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