A cinquant'anni di carriera e oltre tre milioni di spettatori, Massimo Ranieri torna sul palco con una nuova scommessa: il Viviani Varietà, diretto da Maurizio Scaparro tutto dedicato al grande commediografo napoletano che a inizio Novecento girava il mondo con i suoi spettacoli che facevano storcere il naso alla borghesia. Da stasera fino all'11 maggio, la scena del Teatro Nuovo ospiterà la traversata del piroscafo «Duilio» che portò la compagnia di Raffaele Viviani in terra argentina per esportare melodie e prosa.
Nel salone delle feste sull'oceano, una carrellata di ritratti in musica che appartengono a un mondo popolare antico ma mai scomparso. E in cui sembra identificarsi...
«Assolutamente sì. Quando ho conosciuto l'opera di Viviani nel lontano '75 grazie a Peppino Patroni Griffi, che mi volle come protagonista di Napoli, chi resta e chi parte, capii subito di appartenere a questo autore straordinario. La Napoli delle sue canzoni e delle sue poesie è quella del popolo della strada, i vicoli dei quartieri poveri dove io sono nato e cresciuto».
Come in tutti i suoi spettacoli c'è molto della storia di Giovanni Calone, il ragazzino dei vicoli diventato Massimo Ranieri. Nel teatro di Viviani, invece, che cosa c'è di attuale?
«Moltissimo. Intanto, il viaggio che fece in Sudamerica con la sua compagnia avvenne nel 1929, l'anno della grande crisi economica. Oggi come allora i temi sono la paura per la sopravvivenza, l'immigrazione (e l'emigrazione), la speranza per il futuro dei propri figli. Viviani nei suoi spettacoli ha raccontato tutto questo e lo ha fatto con grande umanità utilizzando tante arti in una; infatti era regista, poeta, cantante e compositore».
Un grande eclettico proprio come lei, sempre in bilico tra canzone, teatro e... televisione. Se fosse obbligato a scegliere?
«Come faccio a rispondere? La mia anima di cantante non potrebbe mai fare a meno dell'attore; quanto alla televisione, sono come il presidente della Repubblica, ogni sette anni mi concedono un programma. Quest'anno ho portato in Rai Sogno o son desto che, in barba ai gufi, è stato un grande successo. Ma la televisione la voglio in dosi omeopatiche, il mio regno è il palcoscenico».
Torniamo allo spettacolo, che cosa succede a bordo del piroscafo «Duilio» magicamente allestito nella scenografia di Lorenzo Cutulì?
«Io e il regista Scaparro abbiamo voluto ricreare, attraverso le lettere che Viviani scriveva alla moglie, le prove dello spettacolo destinato agli emigranti italiani di Buenos Aires, riunendo nelle sale di terza classe un popolo di scugnizzi, prostitute e ambulanti che poi sarebbe andato in scena. Naturalmente ci sono tante canzoni sulle melodie di Viviani, con le elaborazioni musicali di Pasquale Scialò e i testi curati direttamente dal nipote di Raffaele, Giuliano Longone Viviani».
Prostitute, ladri, disperati; il mondo dei personaggi di Viviani è così diverso da quello borghese di Eduardo.
«Viviani racconta sul palco la gente vera, il popolo, e nei suoi spettacoli si parla la lingua napoletana non il dialetto. Potremmo dire che lui sta a De Filippo come Carlo Goldoni sta a Ruzante».
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