Vent’anni di inchieste: il terrorismo islamico passa da viale Jenner

«La comunità islamica di Milano e della Lombardia saluta il suo grande maestro pregando Iddio altissimo di accoglierlo in paradiso tra i suoi martiri». È il 1995. L’imam Anwar Elsayed Shabaan viene ucciso in Bosnia. Secondo gli investigatori, si trovava nella ex Jugoslavia per guidare i mujaheddin in guerra. Sette anni prima, dopo aver lasciato l’Egitto, era stato tra i fondatori del centro culturale di viale Jenner, diventando il capo spirituale della comunità musulmana locale. Attorno al suo nome, e a quello di altre 14 persone, ruotava una delle principali inchieste della Procura sulle cellule jihadiste che operavano sotto la «copertura» dell’istituto. Era l’«operazione Sfinge». Tra i nomi finiti in quell’indagine c’era anche quello di Abu Imad, che di viale Jenner fu l’imam per diverso tempo. E già dal 1990, sostengono gli inquirenti, che in viale Jenner venivano poste le basi per creare una «struttura segreta» aderente alle organizzazioni fondamentaliste.
Così viale Jenner entrava nell’orizzonte della nostra intelligence, aggiornando il vocabolario dell’antiterrorismo. Allora si cominciò a parlare di proselitismo e raccolta di fondi per la causa fondamentalista, di «supporto logistico» alle attività internazionali dell’estremismo islamico, di un luogo - il centro culturale - considerato il punto di riferimento per alcuni nuclei di estremisti. A distanza di anni, si continua a parlarne. Viale Jenner, hanno documentato le indagini dei magistrati, è stato una zona franca per l’islam più oltranzista. E il rischio, spiegano gli investigatori, è che non sia stata fatta «pulizia» fino in fondo.
Quello di Mohamaed Israfel, uno dei presunti complici del kamikaze, è solo l’ultimo dei nomi «scomodi» che vengono accostati all’istituto. Andando a ritroso nel tempo emergono contiguità ancora più esplicite con il fondamentalismo islamico. Nel 2001 vengono arrestati l’algerino Abdelhaim Hafed Remadna e il marocchino Yassine Chekkouri - il primo segretario dell’allora imam di viale Jenner, il secondo bibliotecario nella struttura. La Digos li indicava come figure di rilievo della struttura fondamentalista in Italia. È Remadna, il 2 luglio di otto anni fa, a chiamare verso un’utenza satellitare dal telefono del centro culturale. Dall’altro capo della linea, secondo gli investigatori, c’era Omar Chaabani, considerato il responsabile dei campi d’addestramento afghani di Al Qaida.
Ma di viale Jenner si parla in inchieste anche molto più recenti. Nell’ottobre 2007, il gip Luisa Savoia firma un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 27 islamici accusati di terrorismo. Alla cellula viene contestato anche il «proselitismo - scrive il giudice - effettuato anche nei luoghi di culto e di riunione come la moschea di via Quaranta e viale Jenner», il tutto attraverso «videocassette, dvd, documenti propagandistici e sermoni inneggianti e istiganti al terrorismo, al sacrificio personale in azioni suicide destinate a colpire il nemico “infedele”». Un anno dopo, è il gip Giuseppe Gennari a mandare in carcere 23 persone per lo stesso reato. E anche in questo caso, compare viale Jenner come uno dei luoghi di ritrovo di alcuni componenti della cellula. Infine, nel giugno scorso, è il giudice Simone Luerti a fare arrestare cinque nordafricani.

Tra questi anche il tunisino Houcine Tarkhani, «divenuto - scrive il gip - figura di riferimento di un gruppo di tunisini attestati su posizioni estremiste e frequentatori della moschea di viale Jenner». Sono passati solo quattro mesi.

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