Mircea Eliade l’attimo fuggente dello spirito

Una raccolta di conferenze dedicate allo studioso delle religioni e dello «spazio sacro»

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Il tempo è irredimibile, scrive in versi leggendari T.S. Eliot. Passato e futuro, e la loro tragica confluenza nel presente, mettono in scena, nei versi del maggiore poeta del Novecento, l’attore di tutti drammi recitati, consapevolmente o meno dall’umanità: il tempo. «La mia pena è durare oltre quest’attimo» recita un non meno rivelante verso di Luzi: l’estasi, la piena comunione amorosa col tutto, ha cancellato il divenire, ha ricreato quell’istante assoluto di pienezza cosmica, quella luce che Dante trova al culmine del suo viaggio, in Paradiso, nella radianza di Dio. Il tempo è cancellato nel divenire, diviene assoluto. L’uomo, da sempre, con i filosofi, i matematici, i fisici, gli scienziati, si interroga sulla natura del tempo. Il contadino, il viticoltore, il pescatore, l’artigiano lo usano come metronomo della loro opera. Gli atleti, tutti lottano contro di lui e con lui, per averlo al loro fianco, come Achille ha al suo fianco Atena: non lotta col tempo solo il velocista, il discesista, ma anche il calciatore che deve pareggiare quando mancano novanta secondi al termine, e il goal segnato dall’avversario è stato un incontro perfetto col tempo, la non parata del portiere un errore di tempo. I greci vivevano il procedere del tempo come una diminuzione dell’essere, ogni istante trascorrente portava via qualcosa da una pienezza peraltro mai conosciuta se non nei sogni delle loro origini d’Oriente. Anche per questo, per il dolore del tempo trascorrente, immaginarono e resero leggendaria una figura di eroe che si oppone alle leggi stesse del tempo, morendo giovane, «anzitempo», diremmo, al culmine dello splendore e della gloria. Una figura immortale contro il divenire del tempo, quel «triste divenire» che troviamo ancora nei sonetti di Shakespeare, e che perde l’esclusiva della tristezza, assumendo mille maschere, alcune delle quali incantevoli, nel suo teatro. Ma è un fatto che là dove avviene il prodigio, nella Tempesta in cui tutti sono incantati dal mago Prospero e infine redenti, o nel Sogno di una notte di mezza estate, in cui il mondo onirico si impossessa per una notte dei personaggi, per modificarne il destino, il tempo è interrotto. In Shakespeare il tempo è fertile quando è incantato, sospeso, come nelle visioni o negli stati di estasi. Quando il tempo scorre, scorrono e grondano torrenti di sangue, in Amleto come in Macbeth. Nel secolo appena trascorso due sono, oltre ai poeti, i grandi interrogatori, e, in quanto tali, socraticamente, i grandi oracoli del tempo: Henry Bergson e Mircea Eliade. Mentre il primo è il filosofo che pone al centro della propria riflessione la questione del tempo, il secondo è il più grande storico delle religioni fino ad ora vissuto, e proprio nella sua indagine sull’induismo, sullo yoga, sullo spazio sacro, sul rito, sulla metallurgia, sull’essenza del mito, orchestra uno dei massimi discorsi sul tempo mai espressi in Occidente. Magistrale la sua indagine sul «tempo magico» degli Aranda, aborigeni della Tasmania, che nella loro iniziazione ritornano al tempo originario ed eterno, combaciante con il loro presente. Altrettanto straordinario quanto convincente il paragone tra l’iniziazione degli Aranda e l’anamnesi platonica, in cui si accede al tempo eterno. Gli aborigeni che scrutano, auscultano, invocano il cunicolo della conchiglia, compiono un percorso iniziatico paragonabile alla metafisica di Platone. Alla faccia di ogni razzismo culturale, tanto per intenderci. L’opera di Eliade, vastissima e fondamentale, è in gran parte stata raccolta e pubblicata in Italia da Jaca Book, che lo accosta quindi idealmente ai grandi filosofi di quel secolo scoperti e resi noti dall’editore milanese, Ricoeur, Lévinas e Derrida. Interrompere il quotidiano, a cura di Natale Spineto (pagg. 220, euro 18), raccoglie un ciclo di conferenze sul tema del tempo e del sacro in Mircea Eliade svoltesi nel 1977. È un libro a più voci di grande interesse, in particolare sulla definizione di «spazio sacro», il luogo in cui «ogni» umano (secondo me, eliadiano in questo senso) inscrive la propria esperienza spirituale e rituale. Accanto ai saggi di Julien Ries, il prosecutore naturale di Eliade, di Lawrence Sullivan, di Michel Meslin, altri autori, molti italiani, si confrontano su un tema centrale, su posizioni differenti.

C’è un tempo ciclico del mondo antico e un altro, lineare, di quello giudaico-cristiano? Che cosa è il tempo nelle varie esperienze religiose? L’editore, in prima persona (poiché la sigla S.B. non significa Sua Bontà, ma Sante Bagnoli), dichiara di voler contribuire al massimo grado alla conoscenza di Eliade di cui è editore ed era amico.

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