«Mitra puntati, pensavamo di morire»

Fausto Biloslavo

«Non auguro questa esperienza neppure a un cane. Andavamo avanti a tè e pane e ci hanno tenuto prigionieri in una grotta, una tenda dei nomadi e infine in un ovile», racconta al Giornale Enzo Bottillo uno degli italiani sequestrati domenica nello Yemen. «Il momento più terribile sono state le due ore e mezzo prima della liberazione. Minacciavano di ucciderci, con i mitra puntati sulla pancia e a gesti mostravano che volevano tagliarci la gola» spiega al telefono da Sanaa, la capitale yemenita, il turista di Basiglio, in provincia di Milano.
Cosa è successo al momento della liberazione?
«È stato assolutamente terrificante: per due ore mezzo la frase classica era police e poi a gesti ci facevano vedere il taglio della gola, la nostra gola. Ogni cinque minuti i due guardiani minacciavano di ucciderci. Abbiamo veramente temuto per la nostra vita. Mi premevano il mitra sullo stomaco. Patrizia Rossi che è la mia compagna si è vista puntare l’arma in faccia in diverse occasioni».
Alla fine sono intervenute le forze di sicurezza yemenite?
«Durante la notte sentivamo che i mezzi della polizia erano nei dintorni, si avvicinavano. Questa mattina (ieri per chi legge nda) c’erano almeno duecento agenti e soldati fuori dall’ovile dove ci tenevano in ostaggio. Non li potevamo vedere, eravamo sdraiati in silenzio, sotto tiro, ma sentivamo il rumore dei mezzi e molte voci».
Come vi hanno trovato?
«I militari stavano eseguendo delle perquisizioni a tappeto. Uno dei soldati ha squarciato un telo che copriva l’ovile e ci ha visti. A quel punto è iniziato il terrore. Non capivo cosa dicessero, ma il senso delle parole del guardiano doveva essere: “Se non te ne vai, li ammazzo”. Il soldato gli rispondeva “non li ammazzare” o cose di questo genere. Probabilmente da fuori puntavano le armi contro i rapitori e loro le puntavano contro di noi. Cercavo di far scudo con il corpo alla mia compagna. Sono stati momenti terribili».
Alla fine la situazione si è sbloccata, ma grazie a chi?
«A un certo punto abbiamo sentito arrivare un elicottero e tutto è finito in pochi minuti. Dev’essere scesa una persona sulla sessantina, molto distinta, che veniva ascoltata con rispetto. La vera molla è che hanno portato pure un tizio in ceppi, con le gambe e le mani legate (un membro del clan del quale i rapitori chiedevano il rilascio nda). Questo tipo ha parlato con i nostri guardiani convincendoli ad arrendersi, perché non c’era più nulla da fare».
Il giorno precedente è scoppiata una sparatoria. Sapete cosa sia accaduto?
«Abbiamo sentito gli elicotteri e poi molti colpi di kalashnikov, ma non erano vicinissimi. Devono aver cominciato a sparare pesantemente contro i fiancheggiatori della banda. Mentre avveniva questa sparatoria i nostri guardiani temevano che la polizia accerchiasse la zona, quindi ci intimavano il silenzio assoluto. In cinque eravamo obbligati a rimanere sdraiati, in due metri e mezzo per due. La domanda che mi passava per la testa era: cosa succede se si mettono a sparare?».
Come ha vissuto la prigionia?
«Un’esperienza del genere non la auguro a nessuno, neppure ai cani. Siamo sorpavvissuti a tè e pane. Ci davano qualcosa da mangiare, quello che avevano, ma non andava giù niente. Talvolta ci sorvegliavano dei ragazzini. Non le nascondo che abbiamo dovuto chiedere il permesso a un bambino di otto anni per andare a fare la pipì. Ho pensato tanto a mio figlio e alle bambine della mia compagna. Non mi preoccupavo per me, ma per loro. Per fortuna ci hanno rapiti in cinque. Se fossi stato solo sarebbe risultato disastroso. Una volta piange uno, una volta l’altro, ma poi capita che qualcuno dice una stupidata e ci si ride sopra».
Dove siete stati tenuti in ostaggio in questi cinque giorni?
«Abbiamo cambiato diversi rifugi. La prima volta ci hanno portato in un casolare, ma i proprietari non volevano tenerci, poi ci hanno fatto dormire all’addiaccio, in una grotta, dove siamo rimasti anche di giorno affinché gli elicotteri non ci individuassero. Di notte, a piedi, camminando nelle pietraie, al buio e senza luci ci hanno trasferito in una specie di residenza. Il giorno dopo, altro trasferimento in una moschea isolata e ancora in una tenda di nomadi. Infine l’ultima prigione è stato l’ovile, dove ci hanno liberati».
Le è rimasto impresso qualcuno dei rapitori?
«Uno dei capi sulla quarantina, ottanta chili, faccia squadrata e una ciste sul sopracciglio destro, che è comparso in tre occasioni. Un bastardo, nel vero senso della parola. Con il kalashnikov appeso al palo, parlottava con i suoi, ci guardava e metteva paura».
È vero che volevano liberare le donne, ma loro si sono rifiutate?
«Assolutamente no. A un certo punto volevano separare le donne dagli uomini, ma ci siamo ribellati».
Come è avvenuto il sequestro?
«Verso l’una e un quarto di domenica, dopo aver pranzato a Ma’rib, ci siamo messi in viaggio con un convoglio di tre auto. Noi eravamo a bordo della prima e abbiamo passato due posti di blocco. Prima di raggiungere il terzo, una Toyota pick up ci ha superato e obbligato a fermarci.

Da dietro sono saltate fuori sei o sette persone tutte armate di mitra, che hanno aperto la portiera e tirato giù il nostro autista di peso. Uno di loro si è messo alla guida ed un altro sul predellino esterno. Come nei film sono partiti a tutta velocità e poi dopo un’ora a cento all’ora, hanno cominciato a inerpicarsi sulle montagne».
Fausto Biloslavo

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