Non è un tipo facile alle scuse, Federico Moccia. Nel senso che prima di accamparne una, per evitare un invito a cui non vorrebbe partecipare o un qualunque altro impegno, aspetta sempre «l'ultimo momento utile».
Che cosa intende?
«Non mi va l'idea di dare un dispiacere al mio interlocutore e allora spero con tutte le forze, fino alla fine, che l'impegno salti per qualche motivo, che sia chi l'ha organizzato a disdirlo».
E se non succede?
«Allora, seppure molto a malincuore, tocca a me piantare una bella scusa».
Che tipo di pretesti inventa, di solito?
«Niente di troppo originale, per la verità: dico che mi ero dimenticato di un impegno preso in precedenza o che il lavoro mi ha bloccato da qualche parte».
Ha un bambino piccolo, non lo utilizza mai come scusa?
«No, in questo sono molto scaramantico, temo sempre che inventare un'influenza, un'intossicazione o qualche altro piccolo malanno di chi mi è caro finisca in qualche modo per farglielo venire davvero».
Ma i protagonisti dei suoi romanzi raccontano scuse?
«Come no, soprattutto le ragazze. Dicono alla mamma che vanno a dormire da un'amica e invece stanno fuori a tirare tardi con il ragazzo».
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