La lunga ombra di Indro Montanelli, impertinente e onnipresente, ci sta inseguendo, a cent’anni dalla sua nascita. Se ne parla, se ne sparla, se ne dibatte. Era un «contaballe», si insinua. Ma il contaballe conta molto più di tanti che s’atteggiano, corrugando severi la fronte, a fonti cristalline di verità. Oggi 6 ottobre la sala Buzzati del Corriere della Sera - mi piace molto l’accostamento di due nomi che sono indimenticabili e di due uomini che furono legati da profonda amicizia - apre le sue porte a un convegno dedicato alla vastissima attività giornalistica di Indro. È prodigioso ciò che Montanelli, lavoratore instancabile, riuscì a realizzare. Infatti il 18 maggio scorso ci si era occupati a Firenze di «Montanelli narratore», e il 6 novembre a Roma ci si occuperà di «Montanelli e la storia d’Italia».
La giornata milanese si articolerà in due appuntamenti, mattina e pomeriggio. Nel primo, presieduto da Paolo Mieli, Angelo Varni, professore di storia contemporanea e direttore della scuola di giornalismo di Bologna, rievocherà i modelli e le prime esperienze di Montanelli. Dopo di lui Sergio Romano dirà della necessità che Montanelli aveva di fare continuo riferimento alla storia per la lettura della cronaca politica contemporanea, e Oliviero Bergamini, professore universitario di storia del giornalismo oltre che inviato speciale in zone di guerra, illustrerà i leggendari réportages del più grande reporter italiano.
L’appuntamento del pomeriggio sarà coordinato da Ferruccio De Bortoli. Roberto Chiarini, professore di storia dei partiti politici, farà riferimento al Montanelli opinionista ed editorialista (e al suo difficile rapporto con il potere); Valerio Castronovo farà riferimento a Montanelli direttore di quotidiani (Il Giornale per un ventennio e per una manciata di mesi La Voce); Paolo Occhipinti racconterà della «stanza» di Indro, punto di forza del suo settimanale, Oggi. Infine toccherà a me di spiegare cosa significasse scrivere con Montanelli. E di spiegare anche - o tentare di spiegare - che importante significato abbia per me l’avere chiamato «La stanza di Mario Cervi» una rubrica di corrispondenza con i lettori che da poco tengo sul Giornale: e che per verità è stata voluta da Vittorio Feltri.
Non è, vorrei fosse chiaro, che io mi atteggi, se non per vecchiaia, a erede ed emulo di Indro. Intanto perché non ritengo d’avere le credenziali necessarie. Poi perché a mio avviso non esistono eredi che reggano il confronto con lui. Esiste qualche epigono o qualche imitatore. Lo scrivere à la manière d’Indro è stato un vezzo e un vizio di giornalisti anche molto brillanti. Io non l’ho avuto. Ho sempre scritto come mi viene naturale. Se poi questo era compatibile con l’alta cifra stilistica di Montanelli - pare lo fosse, tredici volumi della Storia d’Italia lo dimostrano - tanto meglio.
In una recente polemichetta Marco Travaglio mi ha così definito, o piuttosto mi ha fatto così definire da Indro: «Mario Cervi, di cui Montanelli diceva che quando fa il compitino non prende mai meno di sei, ma mai più di sei». Non so da dove Travaglio abbia tratto la citazione, e non m’interessa. È un hobby molto diffuso quello d’attribuire a Montanelli frasi sferzanti, in generale riguardanti avversari di chi le cita. Ma non me ne sento offeso né diminuito. La sufficienza data da Montanelli è molto più lusinghiera di certe lodi sperticate da salotto.
Indro era un esaminatore severo. Per questo ero stato colto da ansia quando avevo saputo della imminente pubblicazione dei diari postumi di Indro, dall’editore intitolati I conti con me stesso (Rizzoli). Non fosse mai che l’amico scomparso mi assestasse, dall’aldilà, qualche botta (ad alcuni colleghi è capitato)? In quei diari sono citato più volte. La prima il 20 novembre 1969. Un poliziotto era stato ucciso vicino al teatro Lirico di Milano durante una manifestazione per il caro-case. «Cervi aveva scritto un breve commento, ma energico e vibrato, sull’assassinio di ieri. Spadolini lo ha modificato attenuandolo» (la commissione interna aveva fatto capire che se non fosse stata accettata la sua versione dei fatti avrebbe bloccato il giornale). Il 4 giugno 1977, dopo che era stato gambizzato Montanelli, fustigando i salotti milanesi dove si era brindato all’evento, trovava modo di accennare a me. «Mi dicono che Cervi, che lo ha commentato (l’attentato n.d.a.) a Montecarlo, ha commosso tutti con la propria commozione». 8 agosto dello stesso anno, da Cortina. «Da Milano mi leggono la risposta di Zanone (segretario del Pli) al mio articolo. Dico a Cervi di pubblicarla come fondo con una replica che affido alla sua penna. Quando me la legge mi pare di averla scritta io, tanto bene riflette il mio pensiero». E il 9 agosto, sempre da Cortina: «Quelli di Azione comunista hanno fatto saltare col tritolo un ripetitore di Telemontecarlo... Ordino di dare il massimo rilievo alla notizia e di dedicarle domani un fondo di Cervi».
E infine il 10 agosto: «Il Giornale è il solo a riportare in prima pagina l’attentato. Anche Il Tempo lo minimizza. Cervi mi legge il fondo che ha preparato. Perfetto come sempre». Mica male, per i miei modesti compitini. Marco Travaglio, in memoria di Indro, vuoi concedermelo un 6+?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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