Moravia, Pasolini e il tinello della borghesia romana

Giuliano Compagno

Tenterò di parlare del Caimano e soprattutto di Nanni Moretti senza ripararmi dietro facili battute. Insomma eviterò di dire, come ha fatto il caro Pietrangelo Buttafuoco, che preferisco Franco & Ciccio. Personalmente infatti a Moretti preferisco Renoir, Allen, Hitchcock, Wenders e Kaurismaki. E Franchi & Ingrassia non mi hanno mai fatto ridere. Pur tuttavia considero Moretti un regista meritevole di menzione, e certamente tra i pochi italiani che, negli ultimi 25 anni, abbiano prodotto film degni di essere mostrati oltralpe. Sicché partirò dal suo maggior pregio, che a mio parere è quello di possedere una poetica. Moretti è artista in grado di rivendicare un proprio manifesto interiore dal quale non si è mai discostato più di tanto. In esso albergano componenti assai diverse tra loro, che egli ha avuto il merito di conciliare con scaltrezza: il privato e il pubblico anzitutto; Roma e l’Italia poi; il sistema e l’eccesso, infine. Una volta Moretti lamentò il comune rimprovero di rappresentare una prospettiva un po’ troppo romana, se non addirittura «pratesca» o «monteverdina». Certo, si può anche girare un film da casa propria e da lì, comunque, raccontare l’intero mondo e tutte le genti che lo abitano, ma sinora non è stato il suo caso. Moretti ha ambientato nella capitale nove opere su undici, da qui descrivendo, con minime varianti, un identico spirito del tempo nelle sue successive trasformazioni: lo spirito della sinistra intellettuale borghese. Di Roma. Trent'anni dopo Io sono un autarchico, il regista ha confidato a Fabio Fazio il suo compiacimento per il fatto che il suo «privato» abbia incontrato il gusto del grande pubblico: un caso collettivo di transfert cinefilo. Milioni di spettatori si sono via via immedesimati nei tic, nelle ossessioni e nelle passioni personali di un mentore affatto casuale: dalla verbosità gruppettara alla nutella; dalla pallanuoto alla neo-etica; dal freudismo alle tentazioni di esilio... fino a partecipare addirittura i fatti più intimi della vita di un uomo, come una malattia, come la paternità e come - nascosta tra le rughe del Caimano - una separazione. Un fenomeno del genere può ben dirsi irripetibile e non inferisce la sfera del giudizio estetico. Di tutti i suoi film, infatti, io trovo brutti soltanto Sogni d’oro e Aprile. Gli altri mi sono variamente piaciuti con due picchi di eccellenza in Caro diario: lo splendido affresco su Roma del primo capitolo e lo struggente calvario clinico del terzo. Ciò a mio avviso attesta, non solo l’autoreferenzialità poetica del regista ma soprattutto la sua capacità di ingenerare quel tipo di esperienza che, tradotta in una parola, si chiama empatia. In quel paio di casi ci si sentiva tutti davvero romani, davvero tutti sofferenti. Ma quando Moretti si affaccia al di là della circonvallazione Gianicolense e si trasferisce, per esempio, ad Ancona, a quel punto i nodi vengono al pettine. Ancor oggi, a cinque anni di distanza, mi resta il dubbio che l’impalmata Stanza del figlio rappresentasse un omaggio alla carriera da parte del gauchismo francese in coincidenza con la vittoria del centrodestra. L’uscita da sé di Moretti si dimostrò infatti parecchio farraginosa. Un film ricercato e tecnicamente buono, che però falliva proprio nell’ambizione di mostrare tanto il «non vissuto» quanto «l’esterno dell’esistenza»: un padre da cui inutilmente continuava a emanarsi l’ego spropositato dell’interprete; l’abnormità di un dolore primario che mai riusciva a descriversi nella sua più autentica devastazione; una relazione coniugale che non arrivava a oltrepassare un dialogo di superficie, mai sfiorando la sfera del Sublime, non dico filosofico ma almeno umano; una figura di psicanalista del tutto inabile ad approfondire - pur nel linguaggio cinematografico - concetti di minima letteratura sul senso di colpa e sull’autostima.
Il partire dalla propria esperienza e dal proprio cuore può essere giudicato un fatto inevitabile, a condizione che da ciò si sviluppi un’apertura verso il mondo. Altrimenti si rimane nell’ambito di un comune compiacimento. A nulla serve, nel caso specifico, la coscienza che la società sia molto più complessa e articolata di quel modo di pensare e di sentire. Moretti è un uomo intelligente e lo sa; tuttavia non gli riesce di rinunciare alla sua sostanza ontologica. A differenza di Allen, che è ebreo newyorchese sin nel midollo ma che si avventura in ogni piega dell’animo umano a lui estranea, Moretti, che è un romano borghese di sinistra, rigetta la necessaria scommessa artistica di rappresentare lo sguardo dell’altro. Questo equivarrebbe, per dirne una, all’ambizione di descrivere l’esperienza di un compulsivo attraverso i sentimenti e le ragioni di un sociologo sobrio. Il fallimento di tale tentativo risulterà evidente. Quel che Moretti racconta può apparire apprezzabile o disdicevole, eppure tanto il suo giudizio quanto il nostro non c’entrano nulla con l’angustia narrativa di chi non si annulla mai, di chi non si tace mai, di chi non ascolta mai l’altro da sé, il differente.
E allora criticare Moretti in base alla sua autoreferenzialità rischia di tradursi in una banalità intellettuale ancor meno incisiva di quella prodotta dall'Autore, che finisce col sembrare un piccolo vezzo perdonabile, il limite di quella generazione post-sessantottina che ha contraffatto la propria esperienza inautentica in un «condiviso» vissuto ideale. Invece no, non di un limite si tratta, ma di una colpa tout court, di cui lo stesso Moretti non è per nulla esente. Sugli autarchici del 1976 che oggi ritroviamo a cantar lodi dei vari padroni, d’accordo, è inutile infierire... ma è dei coerenti che val la pena parlare, di coloro che oggi appartengono alla borghesia romana intellettuale e che sono il frutto di un sofferto, rispettabile travaglio nominalistico. E quale sarebbe la loro «colpa»? Ebbene, nient’altro che il non aver stimato con attenzione e con rispetto il valore di un paese che comunque andava trasformandosi; nient’altro che l'insipienza verso una piccola borghesia da cui giustamente cominciava a trapelare un senso di fastidio nei confronti di una classe intellettuale ben vestita, ben nutrita e ben pensante; nient’altro che l’aver regolarmente disprezzato dal fondo dell’animo qualsiasi elemento di soddisfazione nazional-popolare, dalla ballerina ad Alberto Sordi, da Claudio Baglioni alla vacanza di massa, dalla moda al filmetto d’evasione, salvo poi recuperar tutto fuori tempo massimo, quand’era tardi per omologare una massa divenuta furiosamente anti-ideologica a un’élite di autistici da salotto. E questa colpa non può espiarsi con la facile ammissione «La sinistra è triste!», intanto perché la tetraggine italiana è ben rappresentata a destra e a manca, e poi perché non di mestizia si tratta, bensì di un moralismo a uso e consumo dei privilegiati. E invece vi è ancora qualche persona perbene che si prende la briga di dirlo, magari in merito ad alcuni temi scabrosi e irriferibili (immigrazione, ambiente, religioni e libertà sessuale). Insomma, a dispetto del bell’omaggio che Moretti dedicò allo scrittore corsaro, mi pare che nella borghesia intellettuale romana siano rimaste tracce di Moravia piuttosto che di Pasolini, che conteneva l'imperdonabile difetto di assorbire gli elementi eterogenei e non ancora esclusi dalla società in progress.


Anche per queste ragioni, ogni qualvolta esce «l'ultimo di Moretti» se ne può dire soltanto bene o male, ma quasi mai criticamente, così facendo immenso torto alla sua intelligenza. La liberta intellettuale è un problema tutto romano: dimmi chi sei e ti dirò cosa pensi... una frase alla Flaiano, tanto per chiuderla qui. Povero Ennio, quanto deve aver sofferto!

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