Nel Museo del Prado si può ammirare un quadro di Francisco Goya che ritrae dei popolani condannati alla morte. L'episodio si riferisce all'ordine, emanato il 2 maggio 1808 da Gioacchino Murat, di catturare e giustiziare i madrileni che si erano ribellati all'Armée. Le fucilazioni ebbero luogo all'alba del giorno seguente, nella valle del Manzanarre. Protagonista del Fusilamientos del tres de mayo è l'«eroe collettivo», la massa anonima del popolo e di fronte a quella tela sorge spontanea una domanda: come mai quello spagnolo che insorse contro Napoleone è un popolo eroico? Tanto da meritarsi l'omaggio di uno dei più grandi artisti di quella terra? E come mai qui da noi nessuno ha riconosciuto lo stesso ideale eroico e patriottico a coloro che si opposero a Bonaparte? Alessandro Manzoni non si trattenne dal comporre un'ode a Teodoro Koerner, «nome caro a tutti i popoli che combattono per difendere o per conquistare una patria», morto nella battaglia di Lipsia, un insorto, dunque. Ma perché né don Lisander né altri artisti hanno composto versi, dipinto quadri, scolpito monumenti per onorare la memoria dei nostri insorgenti, i cui nomi non solo non ci sono «cari», ma non hanno storia? Credo non ci sia altra città che possa vantare, come vanta Milano, un arco trionfale eretto in omaggio a Napoleone e nemmeno - salvo che in Francia, va da sé - una via, una piazza o un Foro a lui dedicato. Né altro popolo - sempre escludendo quello francese - indotto a coltivare, come coltiviamo noi, il mito di Napoleone. Non il mito eroico ben rappresentato dal Cinque maggio coi suoi lampi de' manipoli, l'onda dei cavalli, il concitato imperio e il celere ubbidir. Ma il mito di Napoleone «liberatore» e «rigeneratore dell'Italia».
Solo recentemente nel muro dell'idolatria napoleonica sono state aperte brecce e nel drappello degli storici che con efficace metodo argomentativo e corretta lettura delle fonti hanno contribuito all'apertura di quegli squarci si segnala Francesco Mario Agnoli, tra i più efficaci e convincenti studiosi delle «Insorgenze popolari anti napoleoniche». I suoi saggi sono ormai dei classici, riferimenti obbligati per chiunque intenda approfondire - o semplicemente comprendere - le vicende che travagliarono l'Italia tra il 1796 e il 1815. Gli anni, per dirla con Agnoli, della «esportazione armata della Rivoluzione francese e dei conseguenti fenomeni di resistenza, ideologica e militare, delle popolazioni italiane». Il suo ultimo lavoro - Napoleone e la fine di Venezia, edizioni Il Cerchio, pagg. 210, euro 16 - prende in esame i diciotto mesi (primavera del 1796 - autunno del 1797) che vanno dallaggressione napoleonica di Venezia fino alla soppressione della Repubblica. Una delle pagine più sinistre dell'epopea che Enzo Bettiza, nel suo L'ombra rossa, così sintetizza: «Napoleone, che con la Grande Armée precede Hitler nella formazione del primo moderno esercito di massa transeuropeo, pretendeva imporre gli ideali umanitari e i codici della rivoluzione francese coi massacri e i plotoni d'esecuzione». Francesco Mario Agnoli - storico ma anche magistrato - è dell'opinione che «se non effettuasse una serie di cernite e valutazioni» il lavoro dello storico «si esaurirebbe nell'informe elencazione di un'accozzaglia di fatti che ne trasformerebbe l'autore in un semplice e nemmeno troppo avveduto cronachista». L'interessante nota «La storia e il processo» che arricchisce questo libro illustra assai bene cosa intenda l'autore per cernite e valutazioni e quale sia il suo pensiero sulla vexata quaestio dei rapporti fra attività giudiziaria e ricerca storica. Ma d'altronde l'intero saggio ha la cadenza di una serrata istruttoria con ampio «uso della prova» come nel caso - centrale sotto il profilo storico e determinante al fine di chiudere l'annosa polemica sollevata dagli ammiratori di Bonaparte - della presenza o meno di una regolare dichiarazione di guerra prima che la Francia assestasse il colpo di grazia alla già agonizzante Repubblica.
Questo non significa che il saggio di Francesco Mario Agnoli si limiti ad una minuziosa ricostruzione dei fatti. Non mancano infatti incisive osservazioni sul carattere, sul temperamento e l'animo dei protagonisti, sul disprezzo antiveneziano di Napoleone (Je serais un Attila pour Venise) e sulla pochezza intellettuale e morale dei giacobini, dei novatori, «gente abietta - annoterà Napoleone nelle sue Memorie - che sostava giorni e giorni sulle soglie delle mie stanze e che sembrava mi chiedessero l'elemosina... Io ho ammirato il genio potente di Venezia, ma ne ho disprezzato l'anima». Abbietti che come sottolinea Agnoli «nel loro cieco ossequio verso i vincitori» si affrettarono a rendere omaggio al Bonaparte a nome della intera municipalità «esultante di gioia, penetrata dalla più viva riconoscenza verso il grande e magnanimo suo Liberatore e tutta fremente nello sciogliere le prime sue voci per confessar a tutta l'Europa di essere debitrice della sua libertà alla gloriosa nazione francese a all'immortal Bonaparte». Debito a breve, comunque, quello contratto con Napoleone: cinque mesi più tardi fu Campoformio.
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