Napolitano frusta gli euroscettici «Non si ridiscute la Costituzione»

Quello firmato nel 2004 «è un buon compromesso», pretendere un nuovo negoziato «è come aprire il vaso di Pandora». Applausi da ogni parte

Napolitano frusta gli euroscettici «Non si ridiscute la Costituzione»

nostro inviato a Strasburgo
Come un colpo di frusta al cavallo impantanatosi in mezzo al guado e bloccato dal terrore di muoversi. Giorgio Napolitano sbarca in Alsazia e, caso raro per lui, smette la grisaglia da mediatore e inforca gli speroni. Basta immobilismo, no «alla difesa di anacronistiche prerogative e di velleitarie presunzioni nazionali»: serve una Costituzione che permette all’Europa di rispondere a sfide e opportunità che ormai la circondano da ogni lato. Serve che i governi facciano la loro parte, al di là dei referendum.
Si appella alla Francia affinché ritrovi «lo spirito del Paese fondatore», ma le randellate più dure le fa piovere - ma senza citarli - su quei governi, come Gran Bretagna e Polonia, che del «no» pronunciato da francesi e olandesi si sono fatti schermo per non scegliere: «Si può forse decidere da soli che il trattato costituzionale è morto? Che le firme di 27 capi di Stato e di governo non hanno alcun valore? Che i 18 Paesi i quali fino ad ora l’hanno ratificato non meritano rispetto?». L’aula lo segue con attenzione. Non solo perché è un vecchio amico che ha guidato la commissione Affari Costituzionali, ma anche perché mai un presidente della Repubblica si è sporto come lui nel rivendicare la fine dell’immobilismo. Piovono applausi da ogni settore. Lui non ci fa caso e procede ostinato nella lettura delle dieci cartelline. Fino a mettere i piedi nel piatto: con cattiveria se vogliamo, ma anche con sincerità.
Attenti, avverte. Nessuno pensi alla possibilità di una riscrittura di un testo «che è sì un compromesso, ma che è anche il risultato di una seria e profonda riflessione». Perché pretenderne una revisione sarebbe come «aprire il vaso di Pandora, correre il rischio di ripartire da zero, avviare un confronto dai risultati e dai tempi imprevedibili». Rileva in pratica che se qualcuno si ostina a storcere il naso, pretendendo di mantenere il voto all’unanimità e coprendosi dietro i rischi «di un superstato centralizzato», ci potrebbe essere anche chi comincia a reclamare maggiori cambiamenti, più politiche comuni. Non solo su energia, immigrazione, ambiente, politica di difesa - come appare ormai improcrastinabile - ma magari anche sulla «governance economia» che latita nonostante l’introduzione dell’euro.
Non è quella di Napolitano una minaccia dietro cui far intravvedere la possibilità che un nucleo ristretto di Paesi possa riprendere la marcia da solo, senza gli scettici o gli indecisi: «L’Europa a due velocità - dice nella breve conferenza stampa che, assieme a Poettering, chiude la visita ufficiale all’Europarlamento - è ipotesi complessa e molto rischiosa...». Ma l’immobilismo, per lui, non è più sostenibile. A forza di traccheggiare si perde il passo con «un mondo intero che - per dirla con Jean Monet, uno dei padri fondatori - è in movimento». Si aspetta, Napolitano, «segnali nuovi da Parigi» una volta consumate le elezioni per il dopo-Chirac. Dice di confidare nella Merkel, e si appella a «tutti i capi di Stato e di governo» perché assumano le loro responsabilità. In ballo, avverte, non c’è solo il destino comunitario, ma di ogni Paese. «L’Europa potrà incidere solo se rafforza coesione ed unità, l’alternativa è un declino drammatico», sostiene.
L’emiciclo in riva al Reno apprezza tanto a destra che a sinistra (tranne il gruppetto dell’eurorifiuto). Con chi ce l’aveva, gli chiedono alla fine. E Napolitano, senza peli sulla lingua: «In 7 devono ancora procedere a ratifica. E c’è un obbligo giuridico».

Li vede gli eredi di De Gasperi, Monet e Spinelli, da lei citati come esempio? E il capo dello Stato, freddo: «Non dispongo di strumenti per valutare il calibro di chi governa oggi. Dico che alcuni vogliono andare avanti, altri frenano. Ci si pensi bene».

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