Roma - Sale, non sale, chissà. Alla fine Giorgio Napolitano è convinto che no, che Romano Prodi non si vuole arrendere, che darà battaglia fino all’ultimo. «Speriamo che la notte porti consiglio», dice quasi rassegnato ai suoi consiglieri chiudendo una lunga giornata. Eppure all’inizio la sagoma del Professore spunta davvero nello studio alla Palazzina. Ma niente dimissioni, Prodi a mezzogiorno e mezzo arriva sul Colle solo per rispondere alla «convocazione» del capo dello Stato. Un altro faccia a faccia, un altro «colloquio franco», nel quale Napolitano tenta di mettere il premier di fronte alla dura realtà: vale la pena in queste condizioni presentarsi al Senato a cercare un’improbabile fiducia? Se i numeri sono quello che sono, dice in sostanza il presidente, se dopo l’uscita dell’Udeur dalla maggioranza la situazione politica è quella che è, prolungare il braccio di ferro servirebbe soltanto ad inasprire il clima politico generale già di per sé burrascoso assai.
Ma forse Prodi vuole proprio questo: avvelenare i pozzi e impedire qualsiasi ipotesi di governo tecnico, istituzionale o delle riforme, tutti scenari che lo vedrebbero per forza di cose fuori gioco. Così, di fronte al pressing di Napolitano, che per una buona mezz’ora lo invita a pensare bene a tutte le conseguenze di un irrigidimento, il Professore si smarca concedendo solo una mezza promessa: «Terrò conto dei tuoi consigli e valuterò seriamente se presentarmi al Senato o no». Valutazioni che durano l’intera giornata e che si intrecciano ai laboriosi calcoli sui voti e ai tentativi di riallargare la maggioranza. Alla fine il premier decide di dare comunque il via alla giostra al Senato. Chiama Napolitano e lo informa: «Ho bisogno ancora di tempo, devo riflettere». Al Quirinale per dimettersi ci andrà semmai oggi, da presidente del Consiglio battuto in aula.
E così a un perplesso capo dello Stato, che in queste ore ha raccolto gli sfoghi del centrodestra e i malumori del Pd, non rimane che stare a guardare. Ma che sia preoccupato dello sfilacciamento del quadro lo si capisce subito, dalla prime righe del lungo discorso, 19 cartelle, che pronuncia a Montecitorio davanti alle Camere riunite per la solenne celebrazione dei sessant’anni della Costituzione. «Il Paese - dice - sta vivendo un momento di acuta crisi e incertezza politica, con motivi di inquietudine e di sfiducia che serpeggiano tra i cittadini». La Costituzione «rivela tutta il suo valore di cornice e di garanzia comune al si sopra delle alterne vicende dei partiti e delle maggioranze» e ha «retto alle grandi trasformazioni» dell’Italia ma non è intoccabile. Alle «contraddizioni e inadeguatezze del sistema» si può porre riparo, però per innovare «serve un concorso di volontà che sia più forte di ogni divisione». Qualunque discorso sulla Carta deve comunque «prescindere da calcoli contingenti».
Un intervento ampio e preparato da tempo, che il Quirinale invita a non legare all’attualità politica. Però quando parla dell’urgenza delle riforme e di un «rinnovamento della vita istituzionale, politica e civile», senza il quale tutto il Paese sarebbe esposto a gravi ripercussioni, il presidente tocca temi caldi, che verosimilmente affronterà con i partiti quando aprirà le consultazioni.
Tra poche ore la palla dovrebbe dunque passare al Colle. Tutto è pronto alla Vetrata, dove Napolitano tasterà personalmente il polso ai gruppi parlamentari. Il capo dello Stato, questo ormai è noto a tutti, prima di rimandare gli italiani alle urne vorrebbe che venisse approvata una nuova legge elettorale capace di assicurare stabilità all’esecutivo per non trovarsi tra qualche mese nella stessa situazione di oggi.
Se e quando Prodi uscirà di scena, il presidente potrebbe giocare la carta del mandato esplorativo. Ma con l’incattivirsi dei rapporti tra i poli la strada per un governo che si occupi della riforma del sistema elettorale si fa ogni minuto più stretta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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