Massimiliano Scafi
Una lacrima, una mano che passa sopra gli occhi, la voce che si incrina. In piedi sul palco del teatro Da Ponte, Giorgio Napolitano legge un passo di un libro che suo padre Giovanni, tenente di complemento sull'altopiano di Asiago, scrisse nel 1919, «La volontà di vivere». «Bisognava seguirli quei fanti che non si svestivano da mesi e vivevan la vita più aspra. Bisogna vederli in marcia verso la cima di Valbella, così duramente battuta dall'artiglieria nemica». Legge e piange Napolitano ma al tempo stesso invita a non farla troppo lunga. La Grande guerra, dice, va celebrata come si deve e «senza esaltazioni retoriche nazionalistiche» ma soprattutto al di fuori dello «strumentale» dibattito di questi giorni. Basta litigare con la scusa di rifare la storia, «perché le istituzioni non possono e non vogliono attribuire ufficialità a qualsivoglia interpretazione storica». Piuttosto, guardiamo avanti perché l'Italia è di fronte a una situazione difficilissima, a un altro Piave da difendere.
Per farcela, spiega il capo dello Stato, occorre lo spirito di allora, di quando siano nati come popolo. Non servono invece atteggiamenti di chi non riconosce l'unità nazionale o di chi, come Rifondazione, ha chiesto di boicottare il 4 novembre. «Non si evochino oggi nel nostro Paese, per amor di polemica politica o vetero-ideologica, spettri che nessuno vuole più resuscitare». La bussola è la Costituzione repubblicana. «Non cè più spazio per il militarismo e lanti militarismo. È sancita una cultura della pace, di cui è parte lattaccamento alla patria e al dovere di difenderla e di cui è parte anche il nostro sostegno alle organizzazioni internazionali deputate a garantire pace e giustizia nel mondo». Questa «è la nuova funzione delle nostre Forze armate».
In mattinata a Roma all'Altare della patria, poi a Redipuglia al sacrario della prima guerra mondiale, infine in serata a Vittorio Veneto. E oggi a Padova a Villa Giusti, dove fu firmato l'armistizio. Sempre accompagnato dal ministro Ignazio La Russa, il presidente della Repubblica celebra così nella maniera più solenne possibile la festa del 4 novembre. «Una cosa necessaria è giusta - dice - e per niente formale ricordare il novantesimo anniversario di quella luminosa giornata del 1918 e onorare i seicentomila italiani che caddero, bruciati in quella spaventosa fornace bellica. Verso di loro la nazione ha un debito inestinguibile».
Innanzitutto perché è proprio allora che siamo diventati una nazione. È allora che, dopo Caporetto, di fronte «a un allarme generale», siamo riusciti a unirci e a vincere. Una vittoria di popolo, di contadini del Sud e operai del Nord che nemmeno si capivano ma che erano diventati italiani. «Ricordare tutto questo - spiega Napolitano - non ha nulla a che vedere con esaltazioni retoriche di stampo nazionalistico e guerrafondaio, che qualcuno sembra temere. Celebrare quel risultato non significa dimenticare errori e responsabilità politiche e militari».
Ma serve per guardare al domani.
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