Nazionalizzare/ Non torniamo alla palude della vecchia Iri

L’Iri, per volere di Benito Mussolini, nazionalizzò negli anni ’30 le banche provate dalla Grande depressione, espandendo in seguito il suo controllo a gran parte dell’economia italiana. Da quella palude uscimmo con molta fatica solo dopo cinquant’anni, accumulando ritardi e inefficienze che si sono tradotti fra le altre cose nel nostro enorme debito pubblico.

Alle orecchie di un italiano, unico Paese forse nel mondo occidentale ad aver vissuto un’esperienza statale di tale pervasività, suona pertanto incredibile che il (supposto) avanzatissimo mondo anglosassone non sia riuscito a trovare soluzione migliore alla crisi di una nostra ricetta del ventennio. Eppure sembra proprio che l’orientamento prevalente per salvare l’agonia delle istituzioni finanziarie mondiali sia ormai di usare l’arma finale e definitiva: si nazionalizzi tutto e non se ne parli più. Il rischio di una tale scelta è grande (come dimostra la nostra storia) e vi è anche una distorsione di fondo che risulterebbe di difficile composizione: come si giustificherebbe il fatto che le banche più «virtuose», che non necessiterebbero di venire inglobate dallo Stato, si troverebbero a competere con istituti meno meritevoli ma in grado di vantare la tutela pubblica?

Una cosa è certa, lo stillicidio di soluzioni tampone sinora usate ha avuto l’unico risultato di bruciare il denaro nella fornace del ribasso dei prezzi, senza alcun risultato definitivo. Il peccato originale del Tesoro americano nel lasciar fallire una grande banca, con conseguente timore che anche gli altri titoli di debito bancari possano diventare carta straccia come le obbligazioni Lehman, è stato come levare il tappo dal lavandino: per quanto liquido si aggiunga finirà tutto nello scarico. Nell’esempio precedente la nazionalizzazione equivale all’idraulico che per risolvere il problema sviti il lavandino e se lo porti a casa per farci una fioriera, i liquidi non finiscono più nello scarico, è vero, ma forse era il caso di provare a rimettere il tappo.

L’unico modo possibile per tentare di bloccare la spirale del ribasso, senza richiedere una soluzione così drastica e gravida di conseguenze come la nazionalizzazione, è la garanzia totale sovranazionale di tutto il debito bancario e assicurativo. Ormai i subprime sono un ricordo e anche gli «asset tossici» sono una foglia di fico, le banche traballano perché le obbligazioni che hanno in portafoglio, anche le migliori, perdono valore di giorno in giorno, travolte da un flusso costante e continuo di vendite e di sfiducia. I titoli ibridi di banche e assicurazioni quotano a prezzi che anticipano il fallimento e scontano il timore che, anche in caso di nazionalizzazione, il debito possa venire non onorato. Qualora si mettesse assolutamente in chiaro che tutti i titoli di debito, anche subordinati, verranno garantiti a livello internazionale, i prezzi di mercato di tali asset dovrebbero chiudere l’enorme forbice di prezzo che li separa dai titoli di Stato, avviando così la spirale virtuosa del ritorno dei bilanci in attivo e quindi della fiducia.

Senza bisogno di spendere nulla, perché se una garanzia è credibile non viene intaccata. Utopia pensare a un accordo internazionale in tal senso? Forse. Ma se l’alternativa è un balzo all’indietro di più di settant’anni (con la prospettiva di altrettanti per uscirne) vale la pena provarci.

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