Nei Ds vince lo sconforto «Una grana dopo l’altra»

Caldarola: abbiamo vissuto quindici giorni d’inferno e tra poco siamo alla replica

da Roma

«Abbiamo passato due settimane d’inferno per uscire da una crisi di governo, e tra poco saremo da capo a dodici...». Sospira sconsolato, il ds Peppino Caldarola seduto in un angolo del Transatlantico.
Nell’aula di Montecitorio ha appena finito di parlare Pier Ferdinando Casini, definendo «una barzelletta» le maggioranze variabili teorizzate dal ministro Amato, «un’idea spericolata» che «umilia il Parlamento». E il leader dell’Udc avverte: voteremo il decreto sulla missione in Afghanistan, naturalmente, ma come aveva detto Massimo D’Alema, «o la maggioranza ha i numeri o va a casa». E il leader dell’Udc sa bene, come lo sanno i capi dell’Unione, che difficilmente al Senato la maggioranza sarà autosufficiente sulla missione a Kabul: si sta lavorando ventre a terra per recuperare i dissidenti e convincerli a votare, sia pure esprimendo i propri dubbi e le proprie resistenze. Ma la notizia piovuta ieri del rapimento di Daniele Mastrogiacomo, l’inviato di Repubblica catturato dai talebani, non sta facilitando le cose.
Già la capogruppo del Pdci a Palazzo Madama, Manuela Palermi, invoca il ritiro delle truppe perché «la situazione in Afghanistan, grazie alla fallimentare guerra di Bush, è ingovernabile». Il segnale di un umore che a sinistra dell’Unione si sta diffondendo, anche se Rifondazione cerca di arginarlo invocando il «cambio di strategia» segnalato dall’ipotesi di conferenza di pace inserito nel decreto. Ma D’Alema a sera sente la necessità di scendere in campo per avvertire che «è del tutto sciocco strumentalizzare una vicenda di questo tipo, così delicata, in una discussione di carattere politico», perché il rapimento del giornalista non c’entra nulla con «l’impegno militare italiano». Ma che la gestione di questa improvvisa emergenza sia complicata non lo nega il sottosegretario ds alla Difesa Forcieri: «Cercheremo di attivare i canali, ma l’Afghanistan non è l’Irak, lì è più difficile».
Stavolta è il governo di centrosinistra a dover fare fronte ad un rapimento in zona di guerra, e per di più con un difficile voto parlamentare in sospeso. Sarà per questo che parlamentari e dirigenti dell’Unione non paiono granché mobilitati a tenere sotto pressione il governo come ai tempi di Giuliana Sgrena o delle due Simone, e preferiscono concentrarsi su altre questioni all’ordine del giorno. A cominciare dalla legge elettorale: all’altro capo del Transatlantico, i capigruppo della maggioranza sono in riunione permanente per discutere di sbarramenti e di modello tedesco, e per decidere come rispondere alle sollecitazioni del ministro Chiti.
Altrove si discetta di maggioranze variabili, e di quella controversa intervista a Giuliano Amato che ha lanciato il tema irritando molti. Perchè «così non si fa altro che riaprire la questione dell’autosufficienza di questa maggioranza, che si era chiusa sulla fiducia ma che evidentemente non c’è sull’Afghanistan», nota il ds Morri. E il capogruppo di Rifondazione, Gennaro Migliore, lamenta: «Appena si riesce a ricucire da una parte, qualcuno strappa dall’altra».

Il segretario del suo partito, Franco Giordano, cerca di stoppare sul nascere la querelle brandendo la Costituzione, secondo la quale «se c’è la maggioranza su un provvedimento, fine delle trasmissioni». Un memento rivolto anche al Colle, che invece - secondo Amato - ha «giustamente» fatto valere «il basilare principio democratico per cui un governo deve avere una maggioranza di eletti».

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