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Nel bunker dello sceicco anche tifosi dell’Italia

«Ai mondiali di calcio noi hezbollah tifavamo per gli azzurri...»

Luciano Gulli

nostro inviato a Beirut

L’uomo, sulla trentina, senza barba né baffi, sembra uno di quei Rambo della Cnn o della Reuters: giubbotto antiproiettile, elmetto con la scritta Press, macchina fotografica al collo. Tale e quale. In realtà è la nostra guida, il Virgilio che ci guiderà nel girone ancora fumante di Nasrallahgrad, giù nel quartiere di Bourj El Barajneh, dove Hezbollah aveva il suo scalcinato nido d’aquila.
I patti - una rapida occhiata d’intesa, come usa tra gentiluomini - sono stati chiari. «Vietato allontanarsi da me - aveva detto il sedicente fotografo -. Chi fa anche solo dieci metri in direzione diversa da quella che vi verrà indicata sarà riportato indietro all’istante. Vietato filmare o prendere fotografie di persone. Limitatevi a riprendere e a descrivere le distruzioni. In caso contrario, telecamere e macchine fotografiche verranno sequestrate».
Haret Hreik, il quartiere in cui lo sceicco Hassan Nasrallah teneva banco, non esiste più. Le bombe, le cannonate e i razzi partiti dalle navi della Marina e dai caccia dell’Aviazione israeliana, lo hanno ridotto a una sorta di deserto scarnificato. Come se il dio della vendetta avesse scagliato quaggiù tutti i suoi strali. Macerie, tetti sfondati, palazzi di cinque piani accartocciati su se stessi come vecchie fisarmoniche abbandonate in un angolo del palcoscenico alla fine di un festival del tango. Per anni, chi veniva qui, sapeva di varcare «il perimetro di sicurezza di Hezbollah». Controlli, lasciapassare, metal detector, perquisizioni personali, un labirinto di corridoi che attraversavano una serie di palazzi tenuti insieme come da un lungo e demenziale tubo digerente, pensato apposta da un architetto schizofrenico per disorientare i visitatori occasionali. Alla fine, in una stanzetta che non era mai la stessa, si veniva messi al cospetto di sua eccellenza lo sceicco. Qui, in questi palazzi che sembrano stati annientati da una scossa del decimo grado della scala Mercalli, erano ospitati gli studi della televisione Al Manar, quelli della radio Al Nour, gli uffici del «Consiglio della shura» del «partito di Dio».
Chi scrive era stato qui quattro anni fa. Oggi non riconosco neppure le strade, cancellate alla vista da tonnellate di calcinacci, vetri in frantumi, infissi divelti, libri di scuola, materassi squarciati, armadi che hanno sparato alle stelle tutto il loro contenuto, frigoriferi e scarpe spaiate, vecchie copie del Corano abbrustolite e bandiere verdi strappate da folate irresistibili.
Venti palazzi cancellati, un girone dentro l’altro, lo skyline del quartiere radicalmente modificato. All’intorno, in questa Bora-Bora del Bin Laden libanese, quinte su quinte di altri palazzoni popolari ormai deserti, con le loro facciate vetrioleggiate dalle schegge e dalle granate e le loro padelle satellitari inutilmente protese verso il cielo. All’intorno, seminascosti nell’ombra di vecchi androni, o al riparo nei pressi dell’imboccatura di quelli che sembrano garage sotterranei, si vedono gruppetti di uomini armati. Ma se li guardi qualche secondo di troppo, eccoli ritrarsi nel buio, come prudenti marmotte.
Ventitré tonnellate di bombe in una sola sera, mentre lo sceicco Nasrallah, di lì a qualche ora, compariva al Porta a Porta di Al Manar; e di nuovo ieri sera, sorridente e pacifico come sempre, anche solo per farsi beffe dei generali israeliani che hanno scatenato questa gigantesca «caccia al ladro».
Camminando tra le macerie, ogni tanto si viene aggrediti da un odore come di gomma bruciata misto a gas incombusto; un tanfo inconconsueto, come se la carne in putrefazione degli sventurati rimasti sotto le macerie si fosse mischiata a qualche mortifera sostanza contenuta nei proiettili che hanno fatto questo spavento. È lo stesso odore che prende alla gola, certe sere, anche a Beirut, quando la brezza spira da sud.
«Sì, qualcuno forse ci è rimasto - ammette la nostra guida - ma la stragrande maggioranza della gente se n’era già andata, seguendo le nostre istruzioni. Lo sapevamo da un pezzo che gli israeliani avrebbero scatenato un’operazione in grande stile contro il quartiere». Nessuno verrà a cercare questi cadaveri. Ci penseranno i cani e i gatti randagi che si aggirano fra le macerie, infilando i loro nasi in ogni pertuggio e grattando con le loro zampe.
Quaggiù, senza un lasciapassare degli Hezbollah, non si viene. A meno che non si voglia correre il rischio di essere sequestrati e trattati come spie. «Anche quando pensate di non essere visti, ci sono cento occhi puntati su di voi - dice un miliziano nel frattempo sopraggiunto a bordo di una motocicletta -. Qui, il nostro compito è di vigilare notte e giorno per evitare le infiltrazioni degli israeliani». Il grande bunker che ospitava la cerchia ristretta di Nasrallah, il Saddam Hussein del Paese dei cedri, sembra una pentola a pressione cui si era bloccata la valvola. Anche qui, tra pareti abbattute e ferri contorti, libri, copie del Corano, foulard neri, fogli di carta intestata con il logo di Hezbollah, un frammento di carta geografica dell’Iran.
Su un palazzo di fronte, su quattro diversi balconi, altrettante incongrue bandiere italiane. E quelle? domando alla guida che abbiamo deciso di chiamare convenzionalmente Ibrahim.

«Ma come - risponde accendendosi una sigaretta e tirandosi sulla nuca l’elmetto da giornalista -; non lo sa che noi Hezbollah facevamo il tifo per l’Italia, ai mondiali?».

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