Politica

Nel ghetto di Stockwell «patria» dell’immigrato ammazzato per errore

Un anonimo, sovrappopolato sobborgo londinese abitato da gente che viene da ogni parte della Terra. E che se ne scappa non appena ha fatto abbastanza soldi

Guido Mattioni

nostro inviato a Londra

«Benvenuti a Stockwell», invita il cartello. Ma subito sotto, un altro avverte: «Telecamere in attività». Ne hanno messe ovunque: davanti ai negozi, alle banche, alle case, alle fermate dei bus e, ovviamente, nella stazione della metropolitana. «Continuano a metterne ancora e fanno bene, perché qui stiamo diventando troppi», sbuffa una donna di mezza età, fuggendo via quasi schiacciata al suolo da due enormi borse della spesa appena fatta nel mesto supermarket che resta sempre aperto, 24 ore su 24, proprio accanto alla bocca scura della «Tube».
Là sotto, venerdì mattina, con cinque colpi di pistola alla testa, è finita la vita di uno di quelli che la signora definisce «troppi»: un giovane, forse brasiliano, scambiato dai poliziotti per un possibile terrorista kamikaze, ma in realtà colpevole soltanto di essere fuggito davanti agli agenti. E sempre qui, ieri, sono stati arrestati due uomini sospettati di aver avuto un ruolo nei recenti attentati esplosivi. Sinistri quanto effimeri bagliori di notorietà, che hanno portato alla ribalta mondiale questo anonimo quartiere-dormitorio londinese che, insieme al gemello Clapham, disegna i confini di Lambeth, con 266.170 abitanti la più popolosa delle sottozone amministrative in cui è divisa la Greater London. Eppure dev’essere stato bello, qui, nel 1800, quando c’erano soltanto poche case vittoriane sperdute nel verde. Ora l’erba non c’è più, salvo qualche ingiallito parco giochi con scivoli e altalene, unica e recintata attrattiva di ancor più tristi casermoni popolari venuti su in senza grazia architettonica alcuna. E dev’essere essere rimasto ancora bello per un po’ di decenni, anche dopo il 1890, quando qui arrivarono prima la ferrovia e poi la metropolitana, attirando via via nuovi residenti.
Ora quelle casette sopravvivono slabbrate, ingrigite, senza più l’immacolato lucore, quasi marmoreo, che conservano invece nei quartieri più chic della metropoli. «Il fatto è che qui nessuno se ne cura, nessuno prende più in mano un pennello e un secchio di vernice bianca per tenerle in ordine, come si faceva una volta - mastica amaro Anthony Jarvis, un pensionato che ha vissuto qui tutta la vita -. Perché questo - spiega - è ormai un quartiere di passaggio, una residenza provvisoria per le ondate dei new comers provenienti da ogni parte del mondo. Poi - aggiunge - appena fanno un po’ di soldi se ne vanno altrove, subito rimpiazzati da altri».
Infatti, basta guardarsi intorno. Anzi, basta fiutare l’aria. Perché qui è al tempo stesso Africa, Asia e ogni sperduto angolo d’Europa. Lo vedi nei volti o negli abiti dei molti che si incaponiscono a rimarcare ancora la propria diversità, etnica o religiosa che sia. E lo annusi passando davanti a case, ristoranti, negozi e bar: è un accavallarsi di effluvi di spezie e cibi di ogni latitudine. Con una presenza, in particolare, che da un po’ di tempo spicca su tutte: i portoghesi, sempre più numerosi e intraprendenti, che grazie a buon cibo, ottimo caffè e soprattutto a prezzi umani, molto poco londinesi, hanno dato vita a una vivace «Little Lisbona».
Almeno quella, vivace. Perché ieri, una volta esaurito l’assalto famelico dei media a caccia di notizie su un poveretto assassinato per errore, spente le telecamere e rimosse le transenne della polizia, qui è rimasta la solita Stockwell di ogni giorno, con il suo trasandato grigiore, la sua aria dimessa, i suoi pub dal cibo scadente e dalle toilette impraticabili. Non si vedono quasi più nemmeno i poliziotti, che solo venerdì erano un esercito. Quei pochi passano soltanto in automobile, via veloci, quasi schifati, sgommando e sudando nei giubbotti antiproiettile. Ed è rimasta la Stockwell multietnica, troppo densamente popolata (98 residenti per ettaro contro i 46 del resto di Londra e i quattro dell’intera Inghilterra), ma sicuramente anche anagraficamente più giovane del resto del Paese. Qui infatti, grazie alle continue ondate migratorie, la fascia di età compresa tra i 20 e i 40 anni rappresenta il 45% contro il 36% della metropoli e il 26% che è il dato nazionale. Giovani che tuttavia, se li avvicini, tirano via. O hanno poca voglia di parlare.
Come Luigi Di Lieto, 29 anni, nato in Inghilterra ma cresciuto in casa a pane (si sente dal profumo che esce dal forno di famiglia) e dialetto siciliano (quello si sente e basta). Sorride schivo, Luigi, ma mette le mani avanti come a fermare le domande. «La multietnicità è un problema?», gli chiedi. «No, è così da quando sono nato». E se gli domandi della criminalità storce soltanto la bocca. Muto. Ma se insisti - «Più o meno che altrove?» - non gli tiri fuori che un «Mmm».

Un mugolio che dice poco, ma che può anche dire tutto.

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