Nel Partito Democratico crescono i dubbi sull'offensiva delle firme anti-Cav

Dopo che le modalità di raccolta delle firme sono state messe in discussione dal Giornale, a Via del Nazareno si teme che la strategia della protesta continua fatta propria da Pierluigi Bersani possa trasformarsi in un boomerang.

La grande offensiva della raccolta firme contro Berlusconi fa acqua. E la strategia elaborata da Pier Luigi Bersani segna il passo. Il segretario democratico le ha provate tutte le mosse tattiche. Ha tentato di incunearsi tra il Pdl e la Lega, ma senza successo. Ha provato a mettere in piedi l'alleanza patch-work, la «santa alleanza» in grado di unire un disparato arco di forze, dalla sinistra estrema ai casiniani-finiani e di proporsi, in caso di elezioni anticipate, come schieramento anti-Cavaliere. Lo scenario, però, è mutato, i rivolgimenti si sono susseguiti e ormai la richiesta di un cambio di linea, anzi di una vera e propria «svolta», arriva anche dall'interno del partito con Enrico Mor«ando che esorta Bersani ad archiviare l'idea della «santa alleanza» e a concentrarsi piuttosto sull'elaborazione di un programma di governo credibilmente riformista, fondato sul principio «cambiare e non conservare».
La vera ondata di malumore di ritorno è, però, quella sulla firme, dopo che alcuni quotidiani, tra cui il Giornale, hanno testimoniato quanta poca credibilità possa avere una raccolta effettuata in quel modo, dove possono firmare Topolino, Cip e Ciop o Moana Pozzi. Non a caso Fabrizio Cicchitto ha infierito paragonando i 10 milioni di firme ai «10 milioni di baionette di Mussolini». I dubbi ci sono anche dentro al partito. Enrico Letta sostiene che «resta la sostanza della petizione nonostante i tentativi di delegittimazione». Venerdì sera il sindaco di Bari, Michele Emiliano, che ha firmato la petizione ha detto di essersi «sentito un po' patetico, perchè Berlusconi se ne frega delle nostre firme». Anche Ivan Scalfarotto, vicepresidente dell'Assemblea del partito, incalza: «Raccogliere 10 milioni di firme non può essere l'unico modo che abbiamo rappresentare l'indignazione degli italiani. Quel numero rischia di ingabbiare il Pd, mentre gli italiani continuano a chiederci di costruire un Paese diverso». Il tema vero, spiega, «è quello di riuscire a trovare una comunicazione efficace per raggiungere cittadine e cittadini. Obama ha sintetizzato il rinnovamento americano in otto parole, Cameron in dieci quello inglese». Dunque, conclude Scalfarotto il Pd alla prossima Direzione nazionale dica «sette parole» che indichino chiaramente dove il Pd vuole portare il Paese. Anche il quotidiano «Europa» elabora un ragionamento su questa stessa falsariga e chiede al partito di dare «un seguito politico» a quelle firme. Dentro il partito un po' di inquietudine c'è, come spiega all'Ansa l'ulivista Mario Barbi: «Prima siamo stati tutti impegnati nella sfiducia al governo Berlusconi per sostituirlo con un governo di larghe intese; poi abbiamo dato tutti battaglia per chiedere le dimissioni di Berlusconi per l'affaire Ruby; poi abbiamo inseguito la magistratura sperando nella spallata. Tutti questi tentativi sono falliti. Una riflessione su una linea ce la dobbiamo pur fare». Una posizione alla quale replica, allargando lo spettro del ragionamento, Dario Franceschini. «C'è un'opposizione in Parlamento - dice il capogruppo Pd alla Camera - ma c'è anche una mobilitazione della società civile che deve far sentire la propria voce e deve dimostrare che l'Italia è ancora capace di indignarsi e di reagire».

Il timore di un avvitamento nella protesta continua inizia però ad essere percepito a diversi livelli nel partito. Così come la preoccupazione che il tentativo di spallata si trasformi più banalmente in una lussazione.

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