Nel week-end nero della Rossa Schumi rompe anche l’aereo

Rientro triste degli uomini del Cavallino: «Che bello sarebbe stato un finale testa a testa»

nostro inviato a Osaka
Il papà della Rossa è in fila al gate 33 dell’aeroporto di Osaka. Ha la giacca blu al braccio, tiene la borsa con l’altro, camicia azzurra d’ordinanza, pantaloni fresco lana grigi. La divisa degli uomini Ferrari. Il papà della Rossa, di questa splendida 248F1, l’uomo che ne ha modellato le forme per farla volare, ha gli occhi stanchi e tristi. Quando li incroci, abbozza un sorriso cordiale, come tutti gli altri cinquanta ragazzi e uomini del Cavallino, dietro, davanti e accanto a lui, in fila per l’imbarco. Non trova parole, il papà della Rossa; ti stringe la mano con quell’espressione che non ha bisogno di frasi e altro, come di chi riceve le condoglianze. Condoglianze per un mondiale che sembrava in pugno, condoglianze, soprattutto, per un mondiale che sarebbe stato il primo con un papà italiano, 23 anni sono infatti trascorsi da quel titolo costruttori, stagione 1983, firmato Mauro Forghieri. Perché Aldo Costa ha lavorato su diverse Rosse vincenti dell’era Schumi, ma l’ultima firma è sempre toccata al mago e suo maestro Rory Byrne. Stavolta no, stavolta era tutta sua, la Rossa. «Ma noi non demordiamo, daremo tutto fino al Brasile - dice convinto. - Perché è un grande peccato quanto successo, ed è brutto anche per il campionato: pensate, senza la rottura saremmo comunque giunti a San Paolo con una sfida all’ultima curva, due campioni separati da due soli punti. Meraviglioso».
Il papà della Rossa si siede sull’Airbus per Francoforte, apre un libro e prova a non pensare. Dietro di lui, nella business del volo 741, gran parte della squadra: c’è il direttore sportivo Stefano Domenicali, il coordinatore dei meccanici Nigel Stepney che prova a dare allegria, butta lì una battuta in puro stile britannico che si scontra con la scaramanzia in puro stile italiano. Dice: «Non c’è due senza tre». E tutti si prodigano in un vistosissinmo toccaferro istituzionale. Solo che i conti non tornano: che cosa vorrà dire due senza tre? Per Michael è stato il primo intoppo motoristico da sei anni e 111 Gp a questa parte, il secondo quando è arrivato? «Domenica sera». La risposta arriva da sé quando i ragazzi vengono informati che Schumi, qualche ora dopo la conclusione del Gp, è andato a Nagoya, dove era parcheggiato il suo jet privato. Obiettivo: volare via al più presto dal Giappone: lui, la sua portavoce personale e monsieur Jean Todt. I tre sono saliti a bordo e subito ne sono ridiscesi. Dopo la Ferrari, un guasto anche al jet. Che domenica bestiale per il tedesco.
Michael e Todt partiranno la mattina dopo, come tutti noi, su altro volo, stessa destinazione: Francoforte. Durante il viaggio, qualche piccolo abbiocco per il campione e lunghe partite a back gammon con il direttore generale Ferrari. I primi assaggi di vita normale, senza jet, su un aereo di linea, come un pincopalla qualsiasi... o quasi: era in prima classe.
Sull’altro aereo, il nostro, l’ingegner Costa, Domenicali e tutti gli altri non sanno ancora che quando il motore del tedesco ha fatto puff, è partito un gran applauso nell’immensa e poliglotta sala stampa giapponese. Applausi non italiani, non spagnoli, applausi che però fanno male. Luca Colajanni, capo ufficio stampa della Ferrari F1, si è appena collegato via internet, lo scopre in quel momento. S’incacchia. «Una vergogna», dice. Ha ragione. Basta osservare la depressa stanchezza degli altri 50 uomini del Cavallino, sconfitti e distrutti dopo essersi spaccati la schiena per far volare la Rossa e i nostri sogni. Domenicali, il direttore sportivo, appena informato sorride con stile: «Come sto? Sto che siamo tanto delusi... però non molliamo, come dice il presidente. Michael ha detto che non gli piacerebbe vincere con un ritiro di Alonso? L’ha detto in quel momento... ma noi non rinunciamo a crederci fino all’ultimo. Però fa male: questa gara rientra tra i grandi dispiaceri. Più di Jerez ’97? Là successe qualcosa in pista (la brutta manovra di Michael, ndr), qui era tutto diverso. Qui eravamo alla fine di una rimonta storica... per questo fa così male».
Intanto, lungo il corridoio, c’è l’ingegner Mattia Binotto, responsabile dei motoristi in pista, che ogni tanto si alza e va avanti e indietro. Ha fretta. Non vede l’ora di arrivare a Maranello, di riavere quel motore fra le mani per capire che cosa sia successo (si vocifera fosse una versione più potente).
Prego sedersi, prego le cinture, anche Binotto deve rassegnarsi. Si atterra. Tutto okay. O quasi.

Le hostess riconsegnano le giacche blu, 50 giacche blu con lo stemma del Cavallino. Non si capisce più nulla. C’è un ingegnere con una giacca cortissima, un meccanico con una lunghissima, anche Colajanni è in crisi. Si guardano tutti in faccia e, finalmente, una grande risata.

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