Nessuno vuol negare i diritti dei gay

P iazza San Giovanni, a Roma, oggi si riempirà di persone poco abituate a scendere in piazza, che affrontano gli imprevisti e le difficoltà del viaggio con sereno entusiasmo. Sono persone che si portano appresso «carrozzine e carrozzelle», come è stato scritto in qualche volantino, cioè anziani, disabili e bambini, tutti insieme, perché la famiglia è questo: il sentimento che attraversa le generazioni e le unisce in un filo di amorosa continuità, trasmettendo il patrimonio di cultura, fede, esperienza, dagli anziani ai giovani. È il luogo degli affetti e della cura, dove tutto viene fatto solo per amore, fuori dalle logiche della monetizzazione e del mercato; dove ci si affida l’uno all’altro con fiducia, per tutto il corso dell’esistenza.
Si può pensare davvero che questa sia una piazza «contro», una piazza d’odio, che vuole escludere, condannare, negare diritti a qualcuno? No, a meno che non si sia tenacemente chiusi nella volontà di equivocare a tutti i costi, di interpretare secondo schemi ideologici o calcoli politici.
Non siamo su quel palco a esibire famiglie perfette e a valutare quelle altrui; le nostre famiglie, come quelle di tutti, sono così così, a volte splendide di comprensione e generosità, altre volte meno. Dentro c’è fatica, dolore, conflitti, come in tutte le cose umane. Non siamo moralisti che giudicano acidamente gli altri. Ricordate quando l’onorevole Villetti, della Rosa nel Pugno, additò al pubblico ludibrio in Parlamento una serie di esponenti politici divorziati, con nome e cognome, giudicandoli indegni di difendere la famiglia? Il 12 maggio Villetti sarà probabilmente alla manifestazione per «l’orgoglio laico», ma non è questa la laicità che ci convince: la laicità è un metodo, un approccio liberamente critico, non un’ideologia. Ed è proprio un difetto di laicità, in fondo, che imputiamo ai cosiddetti Dico, che riteniamo sbagliati dal punto di vista del metodo. Lo abbiamo scritto nel nostro manifesto, e lo abbiamo detto in tutte le sedi: è giusto riconoscere i diritti personali dei conviventi, omosessuali ed eterosessuali. Perché farlo, però, con un decreto pasticciato e ambiguo, che alleggerisce impegni e doveri reciproci della coppia? Ricordiamo, a chi se ne fosse dimenticato, che in Italia esistono il matrimonio civile e il divorzio, con il quale, però, si garantiscono i diritti dei figli e del coniuge più debole.
Ma, dicono gli omosessuali, ci siamo anche noi. Siamo tanti, non possiamo sposarci, e vogliamo riconosciuti i nostri diritti individuali e la nostra capacità affettiva, che ci rende famiglia. Sui diritti individuali di qualunque minoranza, anche la più ristretta, non si scherza: l’abbiamo detto, siamo d'accordo, e di soluzioni possibili ce ne sono tante. Però, se non si ha l'intenzione di aprire alle adozioni, o al mercato delle tecnologie riproduttive (compravendita di ovociti, di seme o di embrioni, uteri in affitto e così via) i figli, in una coppia omosessuale non possono esserci; se ci sono, sono stati concepiti con altri partner. Sappiamo tutti come, nelle società antiche dove l’omosessualità era largamente praticata e valorizzata, non è mai stata riconosciuta dallo Stato. Un omosessuale può essere una madre o un padre meraviglioso, può creare una comunità di affetti e una casa (in questo senso una famiglia), ma una coppia gay non può assumersi quei compiti di sussidiarietà che lo Stato affida alla famiglia, e in cambio dei quali riconosce diritti particolari. Sono i compiti legati alla generazione, alla cura e all’educazione dei figli, che per un paese rappresentano il bene maggiore. Chi è gay è anche figlio, e ha vissuto l’esperienza di essere nato nel grembo di una donna, da un atto d’amore tra due persone di sesso diverso. Si tratta dell’esperienza che unifica tutti gli esseri umani, di qualunque appartenenza etnica, culturale, religiosa siano. È davvero discriminatorio e offensivo dire questa semplice verità? E quel bagaglio secolare di esperienza, profondamente radicata nel corpo e nella storia dell’uomo, vogliamo davvero buttarlo dalla finestra senza nemmeno pensarci su? Per favore, lasciamo ad altri termini come odio e fondamentalismo, per esempio a chi, nella Commissione diritti umani della Nazioni Unite, ha preferito non condannare la pratica della lapidazione degli omosessuali in Nigeria. Ricordiamo piuttosto che dalle risoluzioni dell’Unione europea sono scomparse da tempo le parole madre, padre, famiglia, marito, moglie, sostituite da termini neutri (coniuge, progetto parentale, genitore).

Ma anche la parola genitore è ormai in disgrazia, e le ultime proposte, recepite per esempio dalle linee guida del servizio sanitario scozzese, raccomandano di usare i termini tutor o guardian. Non credo sia questo, che vogliamo; non credo lo vogliano nemmeno le associazioni gay.
Eugenia Roccella
*Portavoce del Family day

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