Antonella Landi*
Io lo portavo bianco, col fioccone rosa. La mamma me lo faceva cucire dalla sarta e incaricava la ricamatrice di impreziosirlo con greche orizzontali, disegnini colorati, iniziali arzigogolate. Lo stirava e lo apprettava la sera prima e lo lasciava appeso perché non prendesse nemmeno una pieghina. Al mattino me lo infilava, piano, esortandomi a «non costellarlo - così diceva lei - di grinze morte». I bottoni si rincorrevano lungo la colonna vertebrale e mi davano noia quando mi sedevo al banco, sulla seggiola di legno.
Il fiocco era di sostenuto taffetà, sempre ben teso e largo. In prima amavo il mio grembiule, simbolo di appartenenza a una categoria: la studentessa orgogliosa. In seconda iniziai a sbertucciarlo, quasi in un rito d’iniziazione finalizzato a temprare lui e - indirettamente - me. In terza sciolsi il fiocco, per comunicare che stavo crescendo e iniziavo a maturare un’opinione personale sulle regole sociali. In quarta - fase di ribellione conclamata - presi a portarlo al contrario e sbottonato. In quinta annusavo già olezzo di salto alle medie: non lo misi più e a scuola mi presentai ogni giorno in abiti civili. Se ne evince che il grembiule mi ha sempre convinta poco. Però mi convincono poco anche gli ombelichi all’aria e i pantaloni a mezze natiche. E ancora meno trovo di buon gusto quell’ostentazione esasperata di marche, nomi e sigle, dietro cui si nascondono cifre da capogiro che considero immorali, se vengono messe addosso a chi ancora non è in grado di scrivere il proprio nome sopra un foglio. Poiché non vivo fuori dal mondo e conosco i prezzi, durante l’inattività coatta delle verifiche in classe mi attardo in calcoli approssimativi sommando gli euro che i miei studenti portano sfrontatamente in giro. E resto a un tempo perplessa, frustrata e amareggiata. Perché dietro le scelte discutibili di uno studente, c’è sempre un genitore che gli fa da esempio o accetta di accontentarlo ad ogni costo.
Esorterei le famiglie a scegliere per i figli un abbigliamento comodo, sobrio, sportivo, adatto al contesto. E inviterei i presidi a pretendere il decoro, perché i ragazzi capiscano che, se l’abito non fa il monaco, di certo è disdicevole che un monaco si presenti in chiesa in pantaloni corti e canottiera. Ma più che altro, se fossi un ministro della Pubblica istruzione e avessi l’idea di ripristinare la divisa scolastica, mi affretterei a statalizzarla: già li vedo, sulle pagine patinate delle riviste di moda, i grembiulini D&G in rigoroso bianco e nero, quelli Armani, dal taglio lineare e classico ma con una strizzata d’occhio all’oriente, o quelli di Cavalli, più fru fru.
Già Bianca Pitzorno, in Ascolta il mio cuore, fa dire a Prisca Puntoni che il grembiule del nostro dopoguerra (prezioso e rifinito per i ricchi, ordinario e rattoppato per i poveri) tutto era, fuorché simbolo di parità. *Professoressa e scrittrice
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