«Non sapevo leggere e scrivere ma ho comprato 46 ristoranti»

Emilio Lalli nasce il 5 maggio, data napoleonica e giusta per gli uomini che in questa città si sono fatti con le proprie mani. Il 5 maggio 1947 sbuca nel nulla e cresce fino a 14 anni con un paio di pantaloni e un maglione. Senza mutande. Analfabeta. Tuttora sa fare solo la sua firma. Il nulla è una casa in pietra - di cui conserva sempre una foto in tasca - sulle montagne abruzzesi e lì ha sì e no una patata al giorno. Ora a Milano possiede cinque ristoranti, tra cui il Castello in via Dante, e la biancheria intima consona a chi ha passato due ernie inguinali.
A tredici anni fugge dalla miseria e in treno arriva qui alle nove del mattino. Gennaio 1960. Alle nove di sera, Emilio Lalli ha i piedi, che calzavano un paio di scarponi chiodati del peso di cinque chili, sopra una cassetta. Inizia a fare il lavapiatti in via Porpora. Prima di mettersi al lavandino, conosce anche l’uso di una stoviglia perché il cuoco che gli vede la fame in faccia gli offre i maccheroni col ragù. Non aveva mai visto né un maccherone, nè il ragù e neppure un piatto, perché in Abruzzo pescava la patata bollente dal tegame nel camino.
Quando si vergognò di essere senza mutande?
«La sera che arrivai il proprietario del ristorante, che mi pagava 18 mila lire al mese più il vitto e l’alloggio, mi condusse a dormire nel suo appartamento. Gli dovetti confessare che sotto la maglia e i pantaloni non avevo nulla e che dovevo andare a letto nudo».
Metteva lo stipendio in banca o sotto il materasso?
«Sotto il materasso. Risparmiavo tutto e lo portavo al Paese, per dare il gruzzolo a mio fratello. Me ne sono pentito perché me lo ha portato via, ma lo rifarei».
Da allora ha acquistato, rilanciato e rivenduto quarantasei ristoranti. Come è cambiata la ristorazione in città? E’ vero che c’è crisi?
«La mia prima pietanza è stata la trippa alla fiorentina. Un tempo il menu non offriva varietà, i piatti erano pochi, più conditi ma anche migliori. Magnifico il pane di Milano. Non se ne buttava via una briciola: ciò che restava di una michetta si intingeva il mattino dopo nel caffè. Ancora oggi quando getto via un pezzo di pane prima lo bacio, perché detesto lo spreco. La crisi c’è, ora è difficile rilevare e rivendere un ristorante, ma è anche vero che nessuno vuole lavorare. Non ci sono più coppiette che mi dicono: non abbiamo soldi ma tanta voglia di fare il mestiere».
Una sua sofferenza e la sua felicità?
«Le umiliazioni per imparare a fare il cuoco. Gli chef erano gelosi dei loro segreti. Una volta il mio capo in cucina mi chiese di andare in cella a prendergli un pollo. Tornai con una gallina. Quando si accorse dell’errore, mi colpì in volto con il corpo dell’animale. Non dimentico quella violenza. La felicità è la salute, la mia famiglia e il mio lavoro, non i simboli del benessere che oggi la gente ostenta ».
E’stato strano sentirsi innamorati a Milano?
«Sì. Incontrai mia moglie Franca in modo romantico come una volta era la città. Avevo sedici anni e facevo il vicecuoco. Dormivo in un abbaino all’ultimo piano di una pensione. Un mattino, l’unica volta nella vita che mi accadde, mi addormentai e la portinaia mi mandò a chiamare dalla figlia della mia padrona di casa. Notai la ragazza dai lunghi capelli che mi svegliò. Aveva tredici anni e non la scordai, finché non fu mia moglie».
Si dice che lei sia molto buono, qualità strana in una città rampante. Quando fu la volta che si arrabbiò di più?
«Per una vicenda di tangenti richieste dalla mafia siciliana di Quarto Oggiaro nel 1991. Piuttosto di pagare, mi dissi, ritorno a mangiare pane e cipolla in Abruzzo.

Non lo feci e mi affidai alla squadra speciale della Polizia. Tutto si risolse con l’arresto dei responsabili. Per tre mesi io e la mia famiglia fummo tenuti sotto scorta. Non cedetti. La bontà significa essere giusti e Milano non solo te lo chiede ma te lo permette».

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