Non si può giocare con la propria vita

L’afa aumentava, ad ogni staccata. Ogni centimetro del corpo, sudato, fradicio. Il termometro segnava trentatre gradi, nemmeno troppo, nemmeno tanto. Il problema non era l’aria di questa estate uguale a tante altre estati. Il problema era Valentino Rossi, piegava la sua moto e noi con lui. Accelerava e noi con lui. Sorpassava in curva e noi a spingere. Si faceva superare e noi a mandare madonne al cielo. Le pale del ventilatore andavano a mille e qualcosa di analogo anche. Ma chi ce lo ha fatto fare? Ma chi glielo fa fare? Nel senso che una cosa è la corsa, una cosa è la sfida ma, cribbio, con un chiodo e viti varie nel piede, dico io, roba che se passasse al metal detector lo arrestano al volo ma, aggiungo, è giusto mettere sul tavolo la propria vita? Già, uno sgasa a trecento all’ora, spinge anche sotto la pioggia e poi arrivo io, ometto pauroso, e parlo di rischio e di pericolo.
Le cose stanno diversamente. Nessuno può mettere in dubbio il talento, le doti fisiche di un campione puro, verissimo, autentico come Valentino Rossi. Avercene, come si usa dire. Ma quaranta giorni dopo quell’incidente maledetto c’era il rischio di fare il pataca anche se, lo sappiamo, Valentino tutto è tranne che un «lullone», un babbeo, uno stupido. Ma l’esibizione sfacciata della sfida non c’entra, non deve far parte sempre e comunque del suo repertorio, perché già le «penne» sono un esempio malefico per una generazione, quella sì di pataca e lulloni, di ragazzi che tirano su la bestia che pesa centinaia di chilogrammi, come se fossero Hulk al circo, tanto lo fa Valentino. Ma non abbiamo bisogno di Enrico Toti in motocicletta, non è il caso di essere eroi ma nemmeno martiri e vittime. Il pericolo è il suo mestiere, come recitava il titolo di un telefilm degli anni andati, ma Valentino Rossi sa anche che il suo azzardo diventa un punto di riferimento per chi non ha la stessa classe, la stessa tempra, la stessa preparazione per gestire una macchina velocissima.
Basta farsi un giro, non in pista, ma sulle strade statali e provinciali, basta vedere sfrecciare o ascoltare il rombo di quelle robe lì, per capire quale sia la frontiera oltre la quale non è più sfida ma follia pura, con piloti detti centauri (metà uomini e metà cavalli ma in verità tutti scemi) con la pancia piena di ragù o di altro non meglio definito, ripetere i gesti sognando le gesta del loro e nostro idolo.
Nove titoli mondiali sono un patrimonio che nessuno potrà mai mettere in dubbio, chi discute Rossi si dedichi alle piadine e alle tagliatelle ma qui si discute la sua voglia di strafare e non di fare, la sua immagine che diventa sfacciata, la sua voglia di andare sempre al limite, non soltanto in motocicletta, rischiando anche, in passato, per motivi di cronaca, una figuraccia malinconica.


Paolo Cevoli, che nella parte dell’assessore Palmiro Cangini con Valentino recita in uno spot pubblicitario, ha confezionato un aforisma che riassume il pensiero e l’azione a mio conforto: «Con questo cosa voglio dire? Non lo so. Però c’ho ragione e i fatti mi cosano».

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