Il nostro cinema che se ne frega di questa Italia

Per raccontare e cercare di spiegare la crisi e/o la decadenza del cinema italiano, un aiuto qui da Venezia forse ce lo possono dare l'ombelico, metaforico, di Sabina Guzzanti, intorno al quale ruota il suo Le ragioni dell'aragosta, il senso di assuefazione che traspare da Il dolce e l'amaro di Andrea Porporati.
Entrambi in concorso, sia pure in due differenti sezioni, (quella ufficiale, Venezia 64, per Porporati, «Le giornate degli autori» per la Guzzanti) sarebbe ingeneroso definirli brutti o sbagliati: la recitazione è buona, il primo fa spesso ridere, il secondo fa spesso riflettere, e insomma nell'insieme, al di là di qualche sbavatura, sono prodotti dignitosi intorno ai quali è lecito prevedere un buon successo di pubblico. Il loro difetto è che se ne conosce la fine ancor prima che inizino: sono prevedibili, scontati, senza grazia né mistero. Inutili, in altre parole.
Finora un po' tutta la presenza cinematografica italiana al Festival è stata così, se si esclude Valzer di Salvatore Maira (anch'esso nella sezione «Giornate degli autori»), un piccolo gioiello virtuosistico quanto a sé stante. Per il resto, si trattasse di un giallo fuori concorso nella «Settimana della critica» come La ragazza del lago, o di una seduta di psicanalisi in concorso come Nessuna qualità agli eroi, l'effetto era quello: un dignitoso déjà vu. Prevedibile e quindi inutile.
Se si passa dal particolare al generale, il quadro che ne viene fuori è quello di una cinematografia che non ha più niente da dire in un Paese che non sa più cosa dire. Rimane l'abilità artigianale, la grande tradizione culturale, una scuola di attori, montatori, scenografi, operatori, ma è scomparsa la voglia e la capacità di stupire, l'idea di far parte di un qualcosa di più grande del proprio interesse particolare, l'orgoglio di muoversi all'interno di una storia nazionale lunga e complessa, tortuosa eppure affascinante, da cui affrancarsi o con cui riconciliarsi, ma senza la quale si è condannati a una decadenza senza fine.
Scollatisi dalla realtà del Paese, i nostri registi, i nostri sceneggiatori non lo odiano né lo amano, si muovono al suo interno indifferenti, chi inseguendo il proprio narcisismo, chi la propria giovinezza, chi rifugiandosi nei cliché dell'italianità più classica, chi coltivando il proprio orticello, religioso, familiare, ideologico...
Chi vede nella crisi della nostra cinematografia nient'altro che un riflesso della crisi nazionale, politica, morale, economica, non sembra rendersi conto che è il linguaggio della prima, ovvero la modalità espressiva con cui si manifesta, a essersi inaridito in un'indifferenza cinica e autoreferenziale, in un disprezzo qualunquistico e autoassolvente, in un vittimismo consolatorio. Non c'è grandezza, perché non c'è più coscienza di sé, non c'è più fierezza.


Nel dibattito apertosi nei giorni scorsi sull'identità nazionale, la sua perdita, la difficoltà che si ha nel raccontare per immagini questa realtà e la sua assenza, dibattito che ha visto avvicendarsi, dopo la prima provocazione dello storico Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera, il giorno stesso dell'apertura della mostra del Cinema, registi come Carlo Lizzani, Piergiorgio Bellocchio, Ermanno Olmi, giornalisti come Eugenio Scalfari e Pierluigi Battista, ciò che forse non è stato sufficientemente messo in luce è che per cercare delle nuove modalità di espressione nei confronti di un soggetto o di un oggetto qualsiasi, per esso si deve avere un interesse, in positivo o in negativo, lo si deve esaltare o lo si deve denigrare, se ne può volere il rafforzamento o la distruzione. Il cinema italiano non racconta l'Italia perché non ci crede più e non gliene importa nulla. Semplicemente. Drammaticamente.
Stenio Solinas

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