I più ottimisti si sono presentati di buon ora, convinti di cavarsela nel giro di una mezza mattinata. A vederli, nove ore dopo, sembravano più spenti di un tv color nel cassonetto dei rifiuti speciali. Si fa presto a dire sentenza. La decisione dei giudici della corte d’Appello arriva alle cinque, come una sveglia puntata per sbaglio nel cuore della notte. Ed è un frastuono che rende elettrici i delegati di lista. Quello del Pd, vestito grigio su sorriso fuori controllo, agita i fogli appena depositati e - ancora nell’aula al primo piano del Palazzo di Giustizia - non trattiene un «respinto!» che sa di trionfo. Il radicale Marco Cappato conquista spazio e favore di telecamera per rivendicare una vittoria che è «merito nostro» e la paternità di «un’iniziativa politica che denuncia l’illegalità di queste elezioni regionali». Massimo Corsaro, vicecoordinatore regionale e deputato del Pdl, ormai tutt’uno col cellulare, schizza via che pare una tigre idrofoba. Di lì a poco, l’ufficio del Pdl si riunirà per decidere le strategie. E non dev’essere un bel momento. Il più calmo, in questo circo, è l’avvocato Luca Giuliante, che per il Pdl e assieme ai colleghi Ercole Romano e Beniamino Caravita di Toritto ha presentato la memoria bocciata. Dopo un’intera giornata passata a scambiare calore coi marmi del Palazzaccio, incassa composto la decisione dei giudici. «Sa quanto tempo ho passato ad aspettare in questi corridoi?». Questione di allenamento. Ma lo scenario, con tutta evidenza, se l’era già immaginato. E la prossima mossa ce l’ha chiara in mente. Ricorso d’urgenza al Tar. Già oggi. La partita va giocata su un tavolo diverso. Come diversi saranno i giudici investiti del «pasticciaccio» elettorale. E poi, extrema ratio, Consiglio di Stato.
Chiusi i magistrati in un’eterna (e evidentemente ingarbugliata) camera di consiglio, liberi di attendere con infinita pazienza i cronisti, i delegati e i curiosi in transito. Si cerca di raccogliere un segnale che indichi la via. Un cenno, una porta che si apre, un cancelliere che strizza l’occhio. Niente. Proprio i cancellieri si muovono sconsolati nell’androne del tribunale. Anche a loro non resta che aspettare. E nemmeno loro hanno la palla di cristallo. Ne sanno poco o nulla. La prima voce indiscreta circola verso mezzogiorno. «Subito dopo pranzo», poi corretta in «nel primo pomeriggio». Che è qualcosa di molto simile, ma molto più sfumato verso l’imbrunire. È una rincorsa tra Achille e la tartaruga. Alle due, la sentenza esce alle tre. Alle tre, verso le quattro. Alle quattro, ancora mezzora. L’ultimo dispaccio (non) ufficiale comunica che se la decisione non arriva entro le sei, tanti saluti e grazie e arrivederci a domani. Il personale amministrativo, a quell’ora, se ne va a casa perché non ci sono altri soldi per gli straordinari. La novità viene accolta con funereo entusiasmo. La prospettiva è di ritrovarsi il giorno dopo, stessa ora stesso luogo stessa interminabile attesa. Dopo mezz’ora, però, ci siamo. «Respinto». Il capannello si infittisce sulla porta dell’aula. Le agenzie «flashano» la notizia.
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