Cultura e Spettacoli

Nu’ bello sciuretto gaudente alla Rai di corso Sempione

Con Jannacci ha inventato la comicità della Milano anni Settanta Ora tornano i geniali racconti del più irriverente dei giornalisti. Fine umorista, scanzonato e senza tessere di partito, era insofferente persino del proprio talento

Diciamo la verità, rispetto a Beppe Viola, siamo quasi tutti terroni. Però nel senso buono. Chi scrive, per esempio, essendo nato e cresciuto (e tutt’ora ivi residente) nel quartiere Calvairate, mentre lui veniva da via Lomellina (anzi, «Lomella») e portava il cane a evacuare nei giardini di viale Argonne, lo è, terrone, per un chilometro scarso in linea d’aria. Ma lo è.

È bello, essere terroni, rispetto a Beppe Viola, perché del terrone, l’equivalente anni Sessanta dell’attuale marocchino o peruviano, egli apprezzava, se non l’odore d’aglio e di peperoncino, sicuramente l’ingenuo e comico sforzo di milanesizzarsi. Tipo: «Pecché mi sunt nu bello sciuretto. T’é capit? Mi tengo i soldi e la macchina con le ruote in lega leggera, mi sunt vegniù a Milan cunt una partida de limun e ho fatto i soldi pecché mi sunt viun che laura e mi sunt fa un kiù accussì» (tratto dal suo cammeo Terùn si diventa).

Anche a causa di questa filo-terronaggine, corso Sempione, nel senso degli studi Rai, dovette apparirgli, sulle prime, un altro mondo, geograficamente ma non, come dire... culturalmente, più vicino a San Siro, nel senso del pallone e, soprattutto, dell’ippodromo. Ma siccome, com’è noto, fare il giornalista è sempre meglio che lavorare, lassù, nel Far West de Milàn, Viola si recava, più o meno volentieri, tutti i giorni dal ’61. E viaggiando in tram, il modo migliore per raccogliere materiale umano da schedare idealmente nel molto ufficioso «Ufficio Facce» messo su, a forza di cene e bevute, con il dottor Enzo Jannacci.

Quando, il 17 ottobre 1982, la vita gli sventolò sotto il naso, con l’arroganza di un Concetto Lo Bello da Siracusa, il cartellino rosso, Beppe Viola stava montando il servizio di un Inter-Napoli 2-2. Roba che a lui, milanista e riveriano d’osservanza, doveva procurare la stessa goduria del vedere il tuo cavallo «rompere» a venti metri dall’arrivo mentre è in testa di un sulky. Aveva 43 anni, e il Milan era in serie B.

Una coincidenza da non trascurare. Anche perché, come segnala il collega Massimo Bertarelli, suo vicino di sdraio ad Arenzano Pineta negli anni Settanta, il debutto vocale di Viola avvenne in una circostanza ben diversa: nientemeno che la finale di Coppa dei Campioni del ’63, Milan-Benfica a Wembley, 2 a 1 per noi, con doppietta di Altafini. Il microfono del mitico Nicolò Carosio s’inchiodò più volte come un mulo capriccioso in salita, per cui a tappare i buchi dovette intervenire da studio uno sbarbato di 24 anni. Furono, quelli, frammenti di telecronaca formali e paludati, da monocolore democristiano, influenzati forse più dall’emozione del tifoso che da quella del professionista alle prese con un «pezzo» importante.
Ma ben presto Beppe si sciolse e prese dimestichezza sia con il microfono, sia con la telecamera. Quel gattone paciarotto faceva le fusa a chi ascoltava o guardava, ma sapeva anche graffiare, all’occorrenza, con imprevedibilità felina. Ragion per cui chi, oggi, s’imbatte in servizi, di Stato o commerciali, che si vorrebbero confezionati «alla Beppe Viola», lo rimpiange a più non posso, ben conoscendo la differenza che corre tra l’essere brillante e il fare il brillante. Che è, grosso modo, la distanza, abissale, fra umorismo e satira, laddove l’umorista, diversamente dal satiro, non ha tessere (di partito et similia): è un apolide senza fissa dimora.

Ora che Baldini Castoldi Dalai rimanda in libreria (dal 21 luglio) Quelli che..., antologia di racconti, battute e prese per i fondelli del Nostro uscita nel ’92, a dieci anni dalla sua morte, consigliamo l’adozione di questo volumetto come libro di testo nelle scuole di giornalismo, anche alla luce del fatto che il giornalismo, se vuole davvero sopravvivere a se stesso, deve reimparare a scrivere, possibilmente in italiano. Fra una «mamma» (leggi gay) che lo aggancia al casinò per il piacere del gioco e non della carne, un «clanda» (bookmaker irregolare) che gli tira un bidone, un’«ingiaccata» (rapporto sessuale) con una battona innamorata in «carbona» (pied-à-terre), un rapinatore gentile trasformato in mostro da un collegamento in diretta del telegiornale e i consigli ai ladri che gli hanno rubato l’A112 targata MIH02820, Viola, quatto quatto, bighellona fra cronaca e letteratura.

Se soltanto avesse avuto la voglia e la costanza di scrivere romanzi, allora Pardis, Il bambino Massimo e Don Alessandro sarebbero stati una trilogia da fare invidia a tanta di quella gente che San Siro durante Milan-Inter sembra la sacrestia di una chiesetta di montagna il giorno di Ferragosto. Invece no, Viola aveva sviluppato una palese insofferenza, oltre che verso le cose che non gli andavano giù, anche nei confronti del proprio talento. Nel senso che se ne stancava presto. E lo lasciava lì, sulla scrivania, sul tram, sul comodino. Poi andava a farsi un panino da Gattullo.

Con sopra un bianco bello fresco.

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