Paolo Manzo
«Sono grata soprattutto al nemico (l'Inghilterra, nda) che ha conservato i resti mortali di mio figlio con tanto rispetto». Dopo 35 anni di convivenza forzata con parole come «desaparecidos» e «NN», ha finalmente una tomba su cui piangere María del Carmen Penón, una delle 649 Madres de Malvinas. Suo figlio Elbio Eduardo Araujo è infatti uno degli 88 argentini identificati pochi giorni fa grazie ai campioni di Dna raccolti dalla Croce Rossa Internazionale nel cimitero inglese di Darwin, alle Falkland/Malvinas, dove nel 1983 gli inglesi seppellirono «con ogni onore 237 giovani soldati nemici». Un'operazione di riscatto della memoria resa possibile dall'accordo siglato lo scorso anno da Argentina e Regno Unito e voluto espressamente dal presidente Mauricio Macri, che ha recuperato con Londra relazioni più civili dopo le tensioni dell'era kirchnerista.
Per gli argentini le Malvinas sono un simbolo profondo associato all'idea che hanno di patria, un po' come i monasteri del Kosovo per i serbi o la Crimea per i russi. Tutti a Buenos Aires le rivendicano a parole c'è persino una legge, in realtà in gran parte disattesa, che obbliga i bus di trasporto pubblico a portare sulle fiancate la scritta «las Malvinas son argentinas» ma, almeno sino a pochi mesi fa, nessun governo aveva fatto qualcosa di concreto per aiutare le famiglie dei 649 caduti nella guerra contro l'Inghilterra. Men che meno per dare qualche risposta alle madri che persero nel gelo della Patagonia i loro figli, mandati allo sbaraglio dal presidente Leopoldo Galtieri il quale - era il 2 aprile 1982 - diede l'ordine di occupare manu militari le britanniche Falkland.
Una follia, visto il potere di reazione di Londra, ma cosa meglio di un nemico esterno per far dimenticare al pueblo i disastri di una dittatura - non solo sul fronte diritti umani ma anche economici - sempre più difficili da occultare? Peccato che Galtieri e suoi consiglieri bevessero troppo e, dunque, sbagliarono ogni analisi. Contrariamente a quanto da loro previsto, infatti, il Cile di Pinochet non appoggiò l'occupazione argentina delle Malvinas ma, anzi, ne approfittò per occupare alcuni territori andini contesi a Buenos Aires, gli Stati Uniti di Reagan non tentarono nemmeno di placare la reazione di Londra anche perché l'Urss - alleata sul fronte cerealicolo alla dittatura di Galtieri - non batté ciglio. Fu così che dopo un paio di settimane d'incredula incertezza seguiti dai necessari preparativi logistici, Margaret Thatcher liquidò con la forza in appena due mesi appena il caso Falkland, risultando più decisiva nel far cadere la dittatura sudamericana di mille «controffensive montonere/guerrigliere».
Anche grazie alla risposta militare della Lady di Ferro la democrazia in Argentina tornò già pochi mesi dopo, nel 1983 ma, si sa, ci sono battaglie epiche che vengono ricordate con orgoglio perché sinonimo di guerre vittoriose basti pensare al D Day altre che invece giacciono nel limbo. O perché chi dovrebbe ricordarle le ha perse o perché, anche a distanza di molto tempo, non esiste quella memoria condivisa per un ricordo catartico unificante e, dunque, meglio far finta di nulla. È il caso della guerra delle Malvinas o, come le chiamano gli inglesi, le Falkland, l'arcipelago patagonico che Buenos Aires rivendica da quando, nel 1833, la Marina britannica lo occupò. Una guerra inevitabilmente associata alla dittatura e, dunque, da dimenticare, vittime innocenti mandate al macello comprese.
Per questo le Madres de Malvinas sono state dimenticate per 35 anni, a differenza di quelle di Plaza de Mayo, pur essendo vittime come loro dell'ultima folle dittatura militare che sconvolse il Paese tra il 1976 e il 1983. Le prime persero i loro figli mandati praticamente al macello - senza cibo, né indumenti adatti al gelo patagonico e per giunta maltrattati da vertici militari incompetenti - contro la superpotenza inglese. Quelle di Plaza de Mayo persero i loro figli perché assassinati direttamente dal regime di Videla, Galtieri & co.
La gratitudine «verso il nemico inglese» di María si giustifica non solo per l'oblio sofferto in Argentina ma anche per la profanazione del busto del figlio Elbio Eduardo, che lei stessa ha trovato ricoperto di scritte irripetibili qualche giorno fa, nella città natale di entrambi, Colón. «Per questo ci tiene a dirlo anche ora che so qual è il corpo di mio figlio, non lo farò trasferire qui a Colón ma andrò a portare i fiori sulla sua tomba nel cimitero di Darwin, dove il nemico lo cura sicuramente meglio».
E, paradossalmente, è sempre un «nemico inglese» ad avere reso possibile il riconoscimento degli 88 militi ignoti argentini, ovvero il capitano inglese Geoffrey Cardozo. A spiegarlo è il reduce delle Malvinas Julio Aro, della Fondazione «No me olvides» (Non dimenticarti di me), da decenni in prima linea per dare un nome ai soldati argentini morti alle Malvinas. «Gran parte del merito è di Geoffrey perché è stato lui a riesumare i corpi che noi avevamo sepolto dove capitava in quegli ultimi convulsi giorni di guerra spiega Julio poi li ha messi in una sacca mortuaria, li ha numerati in base al luogo di ritrovamento e li ha seppelliti tutti alla stessa profondità, ciascuno nella sua cassa, nel cimitero di Darwin, con un rispetto incredibile e tutti gli onori».
Un «lavoro meraviglioso - continua commosso Julio e ci ha passato tutte le informazioni, consentendoci finalmente di sostituire la scritta soldato argentino solo conosciuto da Dio con il vero nome dei nostri compagni morti alle Malvinas».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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