«Oggi sul palco con Pino Daniele ma la mia vita è Napoli Centrale»

James Senese, stasera il suo sax ancora al fianco di Pino Daniele con De Piscopo, Esposito e la vecchia guardia. Un tributo alla nostalgia, un’operazione commerciale, o c’è ancora un’energia che vi lega?
«Non ci unisce solo il passato, altrimenti, per come sono fatto io, avrei detto no. Con Pino, in questi anni, i rapporti si sono mantenuti buoni e questa turnèe sta andando benissimo».
«Nero a metà», «a me me piace o blues», eccetera: ma tra voi due il vero nero è sempre stato lei, e non solo per il colore della pelle.
«Già, la mia musica è sempre stata fortemente improntata al jazz e al soul».
Con Daniele avete condiviso un grande avventura musicale. Chi ha assorbito di più dall’altro?
«Sicuramente lui da me. Quando ci conoscemmo negli anni ’70, Pino era un rockettaro e rimase folgorato dalla fusion di Napoli Centrale. Era quello che voleva fare lui».
Insieme avete inciso album indimenticabili. Poi, negli anni ’90, Daniele ha preso la via del successo commerciale. Lei invece è rimasto duro e puro, fedele alla linea della ricerca, ma lontano dal grande mercato. Se n’è pentito?
«Ognuno fa le sue scelte».
Che ha fatto in questi anni, James?
«Come si dice a Napoli, aggio aizato ’a caldarella, ho faticato per restare a galla, per continuare a fare musica di qualità. In pochi se ne sono accorti, ma il progetto Napoli Centrale non è mai morto. Dopo i primi tre dischi (Featuring James Senese, Napoli Centrale e Mattanza, ndr), ho fatto altri nove album e altri due sono in arrivo».
Peccato che nei negozi non si trovino.
«Già, in Italia se non sei nel circuito di una certa tv e non hai una casa di produzione multinazionale, i dischi è uguale a non farli».
I nuovi lavori proseguono nella sperimentazione tra jazz, blues e rock mediterraneo?
«Ci sono nuove contaminazioni, ma non ho copiato da nessuno. E forse è in arrivo finalmente un buon produttore. Speriamo.
Lei è noto al pubblico più che altro come sassofonista. In realtà come autore e cantante è stato incredibilmente sottovalutato.
«Senza falsa modestia, guardandomi intorno, direi proprio di sì».
Daniele, dall’alto del suo successo, una mano poteva dargliela...
«Poteva, sì. Ora, però, mi pare che lo stia facendo».
Lei è stato il padre del «neapolitan power» che negli anni ’80 ha prodotto molti artisti, da Daniele a De Piscopo a Gragnaniello. Oggi quella vena è finita?
«A Napoli vedo molti bravi musicisti. Talenti veri no. Ma il problema è che Napoli è anche piena di impresari da quattro soldi, e non è facile emergere».
Lei viene dalla periferia, quella tanto simile alle scene di «Gomorra». L’arte non può nulla contro quegli scempi?
«Poco. Da queste parti le nuove generazioni hanno altri modelli, la droga, i soldi e la sopraffazione».
Di fronte alle scene di ribellione degli africani a Castelvolturno si sente più nero o napoletano?
«Nè l’uno nè l’altro, soffro perchè alla fine vedo che trionfa il male».
Lei è un figlio della guerra. Che artista sarebbe stato se suo padre l’avesse portato con sè in America?
«Me lo sono chiesto spesso.

Ma chissà, forse negli Usa sarei finito in galera. Era il ’45, e di lì a poco sarebbero arrivati Malcom X e le battaglie per i diritti dei neri, e io sarei stato in prima linea: non vede come porto i capelli? Sono un rivoluzionario»

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